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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Libera informazione al Cairo?

L'Egitto sta considerando di approvare una legge sulla libertà di informazione: si tratterebbe di un bel passo in avanti sulla strada della democrazia per uno Stato che fino a pochi mesi fa era governato da un regime autoritario. Tra il dire e il fare, come sempre, la distanza è sempre ampia. Ecco dunque i dubbi e le perplessità sulla reale efficacia che avrebbe l'implementazione di tale progetto

Tratto da Notizie Radicali

VIA IL BAVAGLIO? – Per la prima volta nella storia del suo sistema legale e dopo vari tentativi falliti, nelle prossime settimane l'Egitto potrebbe finalmente elaborare la bozza di una legge sulla libertà d'informazione. La legge proposta dovrebbe istituire un procedimento volto a permettere ai cittadini egiziani di accedere alle informazioni del governo, a cui è richiesto tra l'altro di render pubblico un maggior numero di informazioni. La proposta di legge che l'Egitto sta considerando è stata elaborata da Toby Mandel, esperto di legislazione sull'informazione, Presidente del Centro per il Diritto e la Democrazia con sede negli Stati Uniti e consulente della Banca Mondiale.

Attualmente, il Centro per l'Informazione e il Sostegno alle Decisioni del governo (IDSC) sta esaminando la bozza insieme ad attivisti dei diritti umani, accademici e giornalisti.

Mohamed Ramadan, direttore dell'IDSC, ritiene che i recenti sviluppi siano positivi ma, al tempo stesso, prevedibili: “nel 2000, soltanto 19 Paesi avevano delle leggi sulla libertà d'informazione. Da allora al 2010, circa 90 Paesi si sono dotati di una legge in materia”. Sulla scena internazionale, le leggi sull'informazione sono state spesso utilizzate come misure anti-corruzione, soprattutto in quei Paesi in cui tale pratica è particolarmente radicata: basti pensare alla Legge Federale su Trasparenza ed Accesso alle Informazioni Pubbliche del governo in Messico (2002) o alla Legge sul Diritto all'Informazione in India (2005).

Secondo Ramadan, la legge attualmente in esame si inserisce perfettamente nella fase di transizione democratica che l'Egitto sta vivendo. “Dal punto di vista del governo, garantire l'accesso alle informazioni potrebbe rivelarsi il modo migliore per mostrare responsabilità e gestire le aspettative”, afferma.

LA BOZZA – Ramadan spera che si possano finalmente cogliere i frutti di questi sforzi di collaborazione, dopo gli almeno 10 tentativi falliti di elaborazione di una legge in materia.

“Si nota una predisposizione generale del governo a coinvolgere la società civile che va valutata positivamente”, afferma Amr Gharbeia, responsabile dei progetti su tecnologia e informazione dell'Iniziativa Egiziana per i Diritti della Persona e personalmente coinvolto nel processo di stesura della bozza.

La bozza, che consta di 38 articoli, disciplina il procedimento tramite il quale i cittadini possono accedere alle informazioni del governo. È divisa in 9 sezioni che si occupano di definizioni chiave, diritto di accesso, pubblicazione regolare delle informazioni, il procedimento necessario per richiedere e ottenere informazioni, eccezioni al diritto di accesso, meccanismi di promozione e sanzioni.

Per quanto riguarda la prima sezione della legge, i membri della società civile coinvolti nella stesura della bozza hanno insistito sulla definizione di alcuni termini che, altrimenti, la legge avrebbe soltanto citato, lasciando così la possibilità di restringere arbitrariamente l'accesso alle informazioni.

“Abbiamo lavorato sulla definizione di 'sicurezza nazionale', esercizio importante anche al di fuori del ristretto ambito di tale legge. Il 28 gennaio, ad esempio, le comunicazioni sono state interrotte ricorrendo alla scusa della 'sicurezza nazionale'”, ricorda Gharbeia.

Nell'emendamento proposto, i membri della società civile hanno definito la sicurezza nazionale in relazione alle informazioni militari, come quelle sull'acquisto e la produzione di armi, i piani militari e le minacce straniere alla sicurezza del Paese.

Per quanto riguarda le eccezioni, che istituiscono limiti legali al diritto di accesso alle informazioni, le parti coinvolte nella stesura della legge hanno cercato di minimizzarle. Fra le eccezioni previste, val la pena di citare: informazioni che potrebbero danneggiare indagini di polizia; informazioni private su un terzo; questioni di sicurezza nazionale così come definite nella prima sezione della bozza; informazioni che potrebbero danneggiare alle politiche di sviluppo del governo.

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DUBBI – Sebbene molti concordino nel ritenere che questa bozza sia promettente e ambiziosa, permangono comunque alcuni dubbi e preoccupazioni sulla sua implementazione. Le istituzioni governative, ma non solo, non hanno mai applicato un sistema di gestione della documentazione che permetta un facile accesso. “Abbiamo alle spalle una lunga storia di inefficienza nel sistema di gestione della documentazione che non ne facilita l'utilizzo e la circolazione”, aggiunge Gharbeia.

Un altro possibile ostacolo all'implementazione della legge consiste nell'attuale sistema normativo, potenzialmente in contrasto con quanto previsto da questa bozza. “Stiamo lavorando basandoci sul presupposto che la legge recente abroghi quella precedente”, afferma Ahmad Ezzat, avvocato dell'unità legale di Libertà di Pensiero e di Espressione, ONG che si occupa di queste questioni. “Ciò che conta è prevedere un meccanismo costituzionale che protegga la legge”.

Ezzat aggiunge che, nella Costituzione del 1971, il diritto all'informazione era limitato ai giornalisti a discapito della gente comune. Ciò vuol dire che gli attivisti per i diritti umani potrebbero trasferire la battaglia per la libertà di informazione al dibattito sulla nuova Costituzione, la cui stesura dovrebbe cominciare dopo le elezioni di settembre.

Ezzat nutre dei seri dubbi sulla possibilità che la proposta di legge sull'informazione, comprendente tutti gli emendamenti aggiunti, venga accettata dal governo e dal Consiglio Militare attualmente al potere. “Lo Stato, a partire dall'ultimo impiegato nella scala gerarchica fino ad arrivare ai livelli dirigenziali, tratta ancora le informazioni alla stregua di armi ed esplosivi. È un'eredità che ci portiamo dietro da tanto tempo e che potrà essere cambiata solo con una reale volontà politica in tal senso”, afferma.

La volontà politica di cui parla Ezzat non è scontata. L'adozione di una legge sulla libertà di informazione è stata da più parti associata alla volontà dell'Egitto di ricevere i fondi di sviluppo e di investimento di organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Perché questi fondi vengano erogati, la responsabilità del governo nei confronti dei cittadini è un prerequisito indispensabile.

“Cose come una legge sulla libertà di informazione dovrebbero essere viste come una condizione positiva”, afferma Amy Ekdawy, manager del programma regionale al Centro di Informazione Bancaria basato negli Stati Uniti e supervisore delle politiche della Banca Mondiale. “La gente è molto sensibile ai temi della condizionalità e della sovranità nazionale. Ma in questo caso si parla solo di responsabilità”.

Ekdawy aggiunge che i prestiti allo sviluppo della Banca Mondiale consistono in una forma di finanziamento che confluisce direttamente nel bilancio statale quindi l'esborso non può essere attribuito ad un progetto concreto. “Con un governo in transizione come quello che si vede oggi in Egitto, i donatori necessitano di misure straordinarie per assicurare la trasparenza e la responsabilità, soprattutto laddove si consideri che il debito ricadrà sulle spalle delle generazioni future”.

Sabato scorso, il Ministro delle Finanze Samir Radwan ha dichiarato che, dopo aver rivisto il bilancio e ridotto le previsioni di debito, l'Egitto non chiederà alcun prestito alla Banca Mondiale o al Fondo Monetario Internazionale.

Resta da vedere se questa mossa avrà ripercussioni sull'adozione della bozza di legge sulla libertà d'informazione che, come già sottolineato, potrebbe essere un incentivo all'approvazione di questi prestiti.

Lina Attalah Sun (per www.almasryalyoum.com ) – traduzione di Federica Favuzza

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Il cambio di rotta: verso la Germania

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L’analisi della proiezione internazionale dell’Italia tra le due guerre mondiali non può prescindere dalla particolare condizione politica interna costituita dall’inizio della dittatura fascista. Il periodo dittatoriale condizionò inevitabilmente le direttive di politica estera, determinando le alleanze verso la II Guerra Mondiale (parte I)

 

Parte I – Leggi qui la parte II

 

L’ITALIA NELL’IMMEDIATO DOPOGUERRA – I trattati di pace che chiusero la I Guerra Mondiale furono considerati penalizzanti per l’Italia da opinione pubblica e governo. Il mito della “vittoria mutilata” nasceva dal fatto che all’Italia non erano stati riconosciuti i territori in Africa e nel Mediterraneo orientale che le erano stati promessi nell’accordo di Londra del 1915. L’altra sfida derivava dalla scomparsa dell’impero Asburgico e del conseguente vuoto di potere che si veniva a creare nell’Europa Danubiana e nei Balcani (dove aveva visto la luce il nuovo stato di Jugoslavia). Altre direttrici che definivano la mappa strategica di espansione italiana erano l’ambizione coloniale in Africa e il tradizionale ruolo nel Mediterraneo.

 

LO SCACCHIERE DELLE ALLEANZE – L’imposizione dell’influenza italiana nella sponda orientale dell’Adriatico per il predominio sulle rotte commerciali diventava, dunque, una primaria direttrice di sviluppo e la poneva in evidente contrapposizione con Germania, Jugoslavia e Grecia. Per quanto riguarda invece il rapporto con le altre grandi potenze europee, con la Francia vi erano contrasti per la definizione delle sfere di influenza nell’Europa danubiana, nel Mediterraneo e, in parte minore, in Nord Africa. In questo scenario, l’Inghilterra diveniva il vero ago della bilancia per quanto riguardava le aspirazioni italiane e già dopo la fine della guerra il governo Facta si rivolse, senza successo, proprio alla Gran Bretagna per veder soddisfatte le proprie rivendicazioni nell’Egeo (Isole del Dodecanneso) e in Africa (il territorio del Giuba). Per il resto Roma intratteneva ottimi rapporti con Austria e Ungheria e dopo alcune iniziali difficoltà strinse una stretta intesa con l’Albania.

 

L’ARRIVO AL POTERE DEL DUCE – Arrivato al potere, Mussolini fu da subito molto attento alla politica estera perché costituiva il mezzo ideale per incanalare l’attenzione domestica verso l’esterno del paese, riducendo l’interesse per le questioni interne. Nei primi anni di governo le relazioni con la Gran Bretagna furono cordiali, soprattutto grazie ai buoni rapporti con l’ambasciatore a Roma Sir Ronald Graham e al capo del Foreign Office Austen Chamberlain permettendo di ottenere le concessioni precedentemente mancate. Inoltre sotto l’ombrello dei buoni uffici con la corona britannica l’Italia perseguì i proprio propositi di espansione nei Balcani ponendo definitivamente l’Albania sotto il proprio controllo grazie al secondo Trattato di Amicizia del 1926 (fondamentale per gli interessi italiani poiché, nell’ottica del predominio sull’Adriatico, limitava l’espansione di Jugoslavia a nord e Grecia a sud). Nella zona danubiana l’Italia si costruì un ruolo importante come partner commerciale per l’Austria e l’Ungheria, riuscendo ad esercitarvi anche una forte influenza politica. Soprattutto nel caso di Vienna, l’Italia si era fatta garante della sua indipendenza e attraverso agli stretti rapporti intrattenuti con il premier Dollfuss e all’appoggio dato ai nazionalisti di Stahremberg si poteva tranquillamente considerare il paese nell’orbita di Roma.

 

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DAL 1929 ALL’ASCESA DI HITLER. IL GERME DEL CAMBIAMENTO – Gli anni a cavallo del decennio furono segnati dallo scoppio della grave crisi economica made U.S.A nel ’29 che si abbatté con suoi echi nefasti sul quadrante europeo due anni più tardi rivelandosi foriera di grandi cambiamenti politici. Questo fu vero soprattutto nel caso della Gran Bretagna che nel tentativo di contrastare la crisi seguì l’esempio statunitense ripiegando su se stessa e limitando il proprio interesse e i propri interventi sul continente. In chiave Italia, i rapporti con l’Inghilterra avevano già conosciuto un raffreddamento con la salita al governo dei conservatori e l’avvicendamento al Foreign Office di Chamberlain con Arthur Henderson.

 

L’ARRIVO AL POTERE DI HITLER – Con l’avvento al potere del Nazismo e l’ipotesi di una Germania di nuovo forte militarmente e influente politicamente si prospettava un grande ostacolo all’espansione italiana in Europa centrale e nei Balcani. Il rischio di perdere posizioni strategiche era più imminente nel caso dell’Austria, naturale zona di influenza tedesca non fosse altro per la vicinanza linguistica e culturale tra i due popoli. Mussolini fu quindi da subito avverso ad Hitler e desideroso di limitare sul nascere la belligerante rinascita tedesca. Tuttavia, gli stessi sentimenti non erano condivisi dall’Inghilterra che, come detto, aveva cambiato il suo orientamento riguardo l’intervento nelle questioni continentali e al momento non vedeva direttamente e immediatamente minacciati i propri interessi. Sull’altro versante, le mutate condizioni dello scenario europeo ponevano le basi per un riavvicinamento con la Francia proprio in funzione anti-tedesca.

 

LE MANOVRE ITALIANE PER UN FRONTE ANTI-TEDESCO – Mussolini si mosse da subito per cercare di arginare la nuova Germania nazista adoperandosi per la costruzione di un fronte comune Anglo-Franco-Italiano capace di tenere sotto controllo Hitler mantenendo vivi gli interessi italiani in Europa orientale. La prima iniziativa fu quella di proporre la creazione di direttorio formato dalle 4 grandi nazioni d’Europa per dirimere di concerto le questioni di rilevanza continentale e coloniali. Questo era la via, secondo Mussolini, di soddisfare le inevitabili rivendicazioni che sarebbero state poste dalla Germania mantenendola però legata agli altri tre paesi e quindi sotto controllo. Nell’ottica Italiana, l’elemento decisivo doveva essere la possibilità di trovare soluzioni anche attraverso la modifica dei trattati di pace (ottenendo anche modifiche territoriali ad est in Croazia a danno della Jugoslavia). L’idea però suscitò le rimostranze di vari stati e l’intera proposta venne convertita in un mero patto di collaborazione per il mantenimento della pace tra varie nazioni. La convenzione, così configurata, non fu mai ratificata ma Italia e Francia trovarono una rilevante convergenza di interessi in funzione anti-tedesca suggellata negli accordi di Roma (l’Italia rinunciava ad ogni rivendicazione in Tunisia in cambio di alcuni territori in Africa). In seguito, sull’onda degli ulteriori timori suscitati dal riarmo e dalla reintroduzione della leva obbligatoria in Germania, si consumò a Stresa un nuovo tentativo per la costruzione di un blocco comune anti-tedesco. Questa volta fu la ritrosia inglese ad impegnarsi in una alleanza militare a limitare decisamente l’impatto dell’accordo.

 

In generale, l’interesse italiano a fermare quella che veniva vista (e si manifesterà) come una nuova minaccia tedesca dovette fare i conti con gli interessi degli altri paesi, meno decisi a variazioni sostanziali dello status quo. La progressiva freddezza e poi ostilità dei governi britannico e francese, forse spaventati dalla natura dittatoriale del fascismo, contribuì a quell’inversione di alleanze che porterà Mussolini a non opporsi più a Hitler, bensì ad appoggiarlo.

 

Cristiano Proietti

Salvare l’Euro, evitando l’effetto domino

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CaffEuropa – Comincia oggi una nuova rubrica, che vi porterà a scoprire quello che accade nel Vecchio Continente. Ogni settimana vi proporremo un articolo su un Paese differente, trattando di politica ed economia con il nostro consueto stile. Per la prima puntata di “CaffEuropa” potevamo non cominciare dalla Grecia, nell’occhio del ciclone per il suo enorme debito pubblico? Il governo Papandreou è da oltre un anno alle prese con una gravissima crisi economica e sociale che fa tremare non solo Atene ma tutti i mercati europei e mondiali.

DENTRO O FUORI? – Abbandonare la nave e salvare il salvabile oppure perseverare, affrontare la tempesta continuando a sacrificarsi nella speranza di uscirne e di riprendere la giusta rotta?

Forse è questa la domanda, il sentimento contrastante che da diverso tempo attraversa i pensieri di molti cittadini europei. Nella fattispecie concreta questa considerazione potrebbe interessare gli abitanti della Grecia; un Paese dal nobile e glorioso (seppur lontano) passato alle prese con un presente tormentato dai fantasmi della modernità rappresentati da un’economia globale priva di regole stabili che rischia di portare alla deriva Atene e non solo.

Disoccupazione, crescita zero, tagli selvaggi sono argomentazioni che non appartengono soltanto alla gloriosa terra delle poleis. Infatti, la possibilità che il collasso finanziario della Grecia possa generare un pericoloso effetto domino terrorizza non solo il vecchio continente, bensì i mercati ed i governi di mezzo mondo.

IL PASSO PIU’ LUNGO DELLA GAMBA – Lo spettro che attraversa in lungo e in largo i confini dell’area monetaria legata all’euro ha fatto si che la Bce e il Fmi abbiano prontamente attivato un salvagente economico, un vero e proprio meccanismo di soccorso per i conti più a rischio (Irlanda, Portogallo e appunto Grecia).  

Circa un anno fa sono stati assicurati alla Grecia aiuti per 110 miliardi di euro in tre anni, 80 di questi forniti dagli altri paesi e 30 dal Fondo monetario internazionale.

Un ausilio economico che evidentemente non è stato sufficiente per riportare i conti ellenici ad un livello minimo di garanzia, costringendo l’Ue ad una seconda fase di intervento.

E se anche questo ulteriore passo non dovesse bastare? Se la Grecia non fosse in grado di riattivare determinati meccanismi virtuosi per diminuire il debito pubblico e ripartire con la crescita economica? Il punto è esattamente questo, il rischio contagio, se la cura non dovesse avere gli effetti desiderati sarebbe altissimo e con conseguenze inimmaginabili.

L’impressione dominante è che la Grecia, come probabilmente altri paesi dell’Ue, per aderire alla sfida dettata dalla moneta unica abbia fatto nel 2001 il cosiddetto passo più lungo della gamba, ritrovandosi ora in una situazione di soffocamento forse preventivabile dal quale è difficile venirne fuori.

LA CONDICIO SINE QUA NON – La seconda tranche di aiuti economici prevista dall’Ue e dal Fmi per arginare i conti in rosso della Grecia contemplava come unica condizione per il via libera definitivo l’attuazione di un drastico piano di austerity, un giro di vite imprescindibile per sanare gradualmente il debito pubblico.

Così nelle scorse ore, in un’Atene blindatissima teatro di scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, il Parlamento ellenico ha approvato la manovra: un piano che prevede tagli da oltre 28 miliardi di euro tra il 2012 ed il 2015 e circa 50 miliardi di nuove entrate provenienti da privatizzazioni.

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PATTO PER L’EURO – Come era logico che accadesse i leader europei e i principali mercati finanziari hanno reagito con soddisfazione all’attuazione del giro di vite made in Grecia. Ipotizzando che Atene si rimbocchi effettivamente le maniche potrà così ottenere circa altri 85 miliardi di euro di finanziamenti fino al 2014. Con ogni probabilità però non basterà sovvenzionare i conti in rosso di uno Stato in difficoltà per evitare ulteriori crisi o nuovi potenziali rischi di fuoriuscita dall’euro; in futuro infatti sarà necessario rimodellare i dettami dell’economia, creando un vincolo sempre più stretto tra economia globale e finanza dei singoli paesi membri.

L’attuazione di un “patto per l’euro” potrebbe essere l’inizio di una nuova fase fatta di regole più chiare e vincolanti. Controllare più strettamente le finanze pubbliche tramite dei meccanismi di stabilità sarà una necessità imprescindibile per evitare che il sogno dell’unità monetaria si trasformi in un pericoloso vicolo cieco.

Andrea Ambrosino

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¿Qué tal Hugo?

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Dopo la delicata operazione di giugno a Cuba, molti sono i dubbi sullo stato di salute del presidente venezuelano Hugo Chávez. La degenza di oltre venti giorni del mandatario crea interrogativi politici sulla sua effettiva capacità di proseguire il mandato e getta scompiglio nella politica venezuelana, incapace di trovare un altro personaggio di eguale carisma e fascino per il “pueblo”. Vediamo in breve cosa sta succedendo al leader della Revolución Bolivariana e quali sono le reazioni del mondo politico venezuelano.

L’ INCERTEZZA DEL SUO ENTOURAGE – Come sta realmente Hugo Chávez? E perché tanto chiacchiericcio sul suo stato di salute? La prolungata assenza del presidente, operatosi a La Havana il 10 giugno presumibilmente per asportare un ascesso pelvico, ha spinto negli ultimi giorni diversi esponenti dell’oficialismo e familiari a rilasciare dichiarazioni che hanno lasciato intendere un iniziale rapido recupero di Chávez dopo l’operazione per poi ridestare seri dubbi sulla gravità della situazione, visto che in questo momento non c’è ancora una data certa per il suo rientro a Caracas. L’ ultimo in ordine di tempo ad aver parlato è stato il vicepresidente del Venezuela, Elías Jaua, che sabato ha dichiarato che Cávez sta proseguendo “la battaglia per l’ indipendenza del Venezuela”. Jaua ha aggiunto che il mandatario è nel pieno esercizio delle sue “legittime funzioni costituzionali e legali” e ha messo in guardia i partiti di opposizione che ha definito “antidemocratici, fascisti e incapaci di vincere le elezioni contro il comandante”.

HUGO CI MANCHI! – L’ assenza forzata del presidente Chávez si fa sentire in primo luogo tra la gente. E a parte la tipica divisione tra sostenitori oficialisti e anti-chavisti, durante gli anni del suo governo non si era mai verificato che il presidente non parlasse al suo “pueblo” per così tanto tempo. I venezuelani sono infatti da tempo assuefatti ai monologhi del “comandante Hugo” che, con la sua loquacità e forza comunicativa, è solito monopolizzare i programmi domenicali di radio e tv.

Ma la degenza di Chávez sta creando in Venezuela soprattutto un vuoto politico bipartisan che coinvolge quindi opposizione e maggioranza. La prima sembra incapace di trovare proposte politiche alternative a quelle dell’oficialismo, ma anche il partito del presidente, il PSUV (Partido Socialista Unido de Venezuela), non sembra in grado di portare avanti l’ agenda politica governativa senza il suo leader.

UN VUOTO POLITICO NELLA MAGGIORANZA … – Il sistema politico creato da Chávez negli ultimi tredici anni, infatti, è del tutto polarizzato sulla sua figura  e fondato su un culto della personalità che non ha lasciato spazio ad altri componenti della compagine governativa per mettersi in mostra o comunque per prendere iniziative politiche originali e distinte rispetto al comandante della revolución. C’ è da considerare inoltre che il PSUV è un partito composito, formato da forze socialiste e populiste che prima della monolitica politica accentratrice di Chávez era fatto di molte anime difficili da tenere insieme. In questi anni, quindi, è stata proprio la figura del leader bolivariano a fare da collante all’interno del partito. Si è arrivati al punto che in queste ultime settimane, a causa della prolungata e preoccupante assenza del presidente, l’ agenda politica del paese sia stata messa in stand-by. In un momento, peraltro, delicato per il Venezuela e per il suo governo, chiamato a pianificare la campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2012 e soprattutto a dover affrontare problemi di stretta attualità quali la crisi energetica che vive il paese e il problema del sovraffollamento delle carceri che ha portato ai drammatici incidenti del carcere El Rodeo.

La situazione di stallo avrebbe addirittura obbligato Chávez a dettare istruzioni telefoniche alle riunioni del partito. Questo fa riflettere in vista delle prossime elezioni. Sarà capace il PSUV di compattarsi al suo interno e soprattutto di ripensarsi eventualmente senza il Presidente nel caso in cui il suo stato di salute non gli permettesse di portare avanti la revolución?

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E NELL’ OPPOSIZIONE – Dall’ altra parte della barricata non se la passa meglio l’opposizione, la MUD (Mesa de la Unidad Democràtica) ovvero una numerosa coalizione di partiti di tendenza socialdemocratica, democristiana e centrista capeggiata da Ramón Guillermo Aveledo. Secondo gli analisti la malattia di Chávez potrebbe rappresentare un’ opportunità politica ma nello stesso tempo un rischio. La MUD non ha ancora scelto il suo candidato in vista delle elezioni di dicembre 2012 e in questo momento di debolezza del governo potrebbe approfittarne anche se i suoi leaders si limitano a lamentare la mancanza di informazioni circa lo stato di salute del presidente e  a sostenere che lo stesso sta esercitando incostituzionalmente il suo potere da La Havana.  Gli analisti comunque segnalano che l’ assenza del mandatario potrebbe generare all’interno dell’ opposizione due tipi di conseguenze: una positiva, vale a dire la consapevolezza di poter vincere le elezioni proponendo candidature e programmi alternativi. Un’ altra negativa, cioè creare un conflitto politico tra i contendenti che senza il Presidente in carica vedrebbero venir meno un elemento di unità, cioè la comune lotta anti-chavista.

Aspettando novità relative alla salute del mandatario gli scenari futuri rimangono quindi incerti. In vista delle elezioni presidenziali 2012 sarà interessante vedere se  l’ opposizione sarà capace di trovare una valida alternativa al chavismo e il PSUV sarà capace all’ occorrenza di rimpiazzare il suo carismatico leader.

Alfredo D’Alessandro

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Un caffè, due candeline

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29 giugno: è il compleanno del nostro sito, che compie oggi due anni. Senza celebrazioni particolari, vogliamo però fermarci un istante, e fare un piccolo bilancio di un Caffè che nel tempo è diventato un po' più grande, e che soprattutto ha tanta voglia di crescere

 

Del giorno in cui avete compiuto due anni ricordate poco o nulla. Questo certo non vuol dire che non sia stata una tappa di crescita davvero importante. A due anni i dentini sono ormai al loro posto, si cammina tutto sommato bene, anzi, ogni tanto si va anche di corsa, seppur ancora un po’ goffi e impacciati, correndo il rischio di scivolare e sbucciarsi le ginocchia. E, chi più chi meno, si sta completando il passaggio dalle parole semplici mamma-papà-pappa alle prime frasi, ai primi discorsi, al primo vocabolario personale.

Si è sempre piccoli, insomma, ma i cuccioli d’uomo a due anni crescono eccome, pronti o quasi per iniziare ad aprirsi al mondo, fosse solo l’asilo del loro paesello o quartiere.

 

Ecco, in questo secondo compleanno, anche noi al Caffè ci sentiamo così. Niente annunci, niente fuochi d’artificio, niente particolari feste. Però vale la pena fermarci un momento. Due anni sono pochini, eppure quante tappe, quanti passaggi di crescita, da quel primo articolo del 29 giugno 2009, con cui dopo qualche giorno di prova ci presentavamo alla rete.

Due anni fa non eravamo più che cinque amici al bar, per dirla alla Gino Paoli. Volevamo cambiare il mondo? Forse non puntavamo così in alto. Avevamo però alcune idee chiare, e volevamo provare a realizzarle. Siamo partiti da alcuni punti fermi, che due anni dopo rimangono drammaticamente evidenti: in Italia si parla troppo poco di esteri, le notizie sul mondo che ci circonda arrivano quasi sempre dopo scandali, cronaca nera, talvolta gossip, e quant’altro. E quando se ne parla, se ne parla con un linguaggio da addetti ai lavori, dando troppe cose per scontate, non riuscendo a farsi comprendere dal grande pubblico. Ne eravamo convinti, e dopo due anni lo siamo sempre di più: non è vero che gli esteri sono “poco interessanti”. Ma per essere tali, occorre parlarne, spiegare, raccontare, rivolgendosi non solo alla nicchia di intenditori, ma a tutti quanti, con uno stile agile, comunicativo, accessibile a tutti.

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Questo era il piano originario di quella sorta di grande blog che ha visto la luce due anni fa. Nel frattempo, i nostri dentini, le nostre prime parole, i nostri primi passi sono stati le trasmissioni radio, la creazione di una associazione culturale, il restyling del sito, tutti i nostri speciali, dal Caffè Mondiale, al Giro del Mondo in 30 Caffè, sino a [email protected], con cui da marzo ogni settimana vi stiamo raccontando la storia della politica estera italiana, per arrivare poi fra qualche tempo a discutere insieme le sue prospettive.

Qualcuno di noi nel frattempo ha preso altre strade, ma i cinque amici al bar sono diventati una redazione di giovani esperti e appassionati di politica internazionale, con una cinquantina di collaboratori, di cui venti all’estero. Insomma, di passi ne abbiamo fatti. Certo però siamo solo all’inizio. Le idee per crescere sono tante, i passi da fare sono infinitamente più di quelli già percorsi. Puntiamo, nel nostro terzo anno, ad “andare all’asilo”, dunque ad aprirci sempre di più al mondo, con nuove idee, nuove forme di comunicazione, nuovi progetti. Il Caffè Geopolitico è nato e sta crescendo solo grazie alla passione di chi lo vive, lo legge, lo segue, e sempre più vuole divenire un punto di riferimento per chi, appassionato del mondo, vuole saperne di più, e comprenderne situazioni e dinamiche. Per continuare a crescere, e a camminare, abbiamo bisogno di voi. Dateci una mano, in tutti i modi. Continuando a seguirci, facendo girare la voce con gli amici, stimolandoci con idee, progetti, proposte di collaborazione.

Quando abbiamo iniziato, con un mix di entusiasmo ed incoscienza, non sapevamo se saremmo arrivati a soffiare sulla seconda candelina. Eccoci qui, pronti a continuare a crescere, puntando alla terza e ad allargare la nostra famiglia e il numero di amici, per divenire sempre più un vero e proprio “Caffè”, luogo di incontro di appassionati del mondo. La strada da fare è tanta, la voglia di percorrerla è ancora maggiore. Continuate a seguirci: insieme, si cammina meglio.  

Alberto Rossi [email protected]

Cristina ha detto sì

Come era nelle previsioni, la “Presidenta” argentina ha annunciato che si candiderà per ottenere dai cittadini un secondo mandato in occasione delle elezioni programmate per ottobre. La vittoria sembra in tasca: un'economia in crescita vertiginosa è la principale chiave del successo della Kirchner. Ma alcune difficoltà sono in agguato

UN “SI'” ANNUNCIATO – Ha atteso fino all'ultimo momento prima di comunicare la sua decisione, ma tutti immaginavano che Cristina Fernández de Kirchner, alla fine, si sarebbe ricandidata alla Presidenza dell'Argentina. Nonostante la perdita del marito Néstor, scomparso a ottobre 2010 per un attacco cardiaco, con il quale aveva formato un sodalizio politico apparentemente indistruttibile, e a dispetto di voci circolanti attorno al suo presunto cattivo stato di salute, Cristina ha annunciato che correrà per ottenere un secondo mandato presidenziale, in occasione delle elezioni che si svolgeranno nella nazione sudamericana ad ottobre 2011. Cristina Kirchner ha anche scelto chi dovrà accompagnarla nella corsa verso la permanenza alla Casa Rosada, sede del Governo di Buenos Aires: non è Daniel Scioli, che in un primo momento era accreditato come suo potenziale erede nel caso non si fosse ricandidata, ma è Amado Boudou, attuale Ministro dell'Economia che, con abilità ma anche con obbedienza, ha saputo assecondare la congiuntura favorevole e le direttive della “Presidenta”.

 

GLI AVVERSARI – Il “ticket” elettorale del Partido Justicialista, che rappresenta la corrente del peronismo cosiddetto “oficialista”, sembra una macchina destinata a mietere consensi e ad avere facilmente la meglio sugli avversari. Recenti sondaggi rivelano un tasso di approvazione della Kirchner superiore al 60% e la legge elettorale argentina non impone il raggiungimento della maggioranza assoluta per poter diventare Presidente: infatti, se un candidato ottiene almeno il 40% delle preferenze e distanzia di almeno il 10% il secondo più votato, viene eletto già al primo turno.

Tale circostanza sembra destinata ad avverarsi con un alto grado di probabilità: l'opposizione, come al solito, si presenta frammentata e debole. Il principale cartello elettorale antagonista è rappresentato dal candidato Ricardo Alfonsìn dell'Unión Cívica Radical (UCR), che potrà contare sull'appoggio del peronismo dissidente guidato da Francisco de Narváez. La coalizione ha però perso pezzi: il Partido Socialista, rappresentato dal governatore della Provincia di Santa Fe Hermes Binner, ha deciso infatti di correre da solo. Vi sono poi altri candidati minori come Elisa Carrió di Coalición Cívica e l'ex presidente Eduardo Duhalde. Tutti questi concorrenti, tuttavia, non sembrano in grado di ottenere un numero di voti sufficiente ad impensierire la Kirchner.

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PUNTI DI FORZA E DEBOLEZZA – Cristina può contare su un'economia fortemente rilanciata. I primi anni di presidenza Kirchner (con il marito Néstor al potere dal 2003 al 2007) videro infatti una forte ripresa dell'Argentina dopo la tremenda crisi di cui il simbolo più noto fu il default sul debito estero. L'affrancamento dalla tutela del Fondo Monetario Internazionale, considerato dalla nuova classe politica la principale causa della deriva economica nazionale per le sue imposizioni neoliberiste, e la forte ripresa del'export dettata dalla svalutazione della moneta locale e dall'impennata dei prezzi dei prodotti agricoli (soia in primis), furono i propellenti del nuovo “boom” che continua ancora oggi: il primo quadrimestre del 2011 si è infatti concluso con una crescita del PIL dell'11%.

Non mancano tuttavia alcuni problemi che, pur non mettendo in discussione una facile rielezione della Kirchner, gettano alcune ombre sull'operato dell'esecutivo. Innanzitutto un'inflazione galoppante che, nonostante venga dichiarata nell'ordine del 10%, è in realtà ben più elevata. In secondo luogo, il crescente deficit commerciale che viene accusato da alcuni anni a questa parte nei confronti del Brasile. Infine, il recente scandalo che sta coinvolgendo l'associazione delle Madri di Plaza de Mayo, che dalla fine della dittatura militare si battono per fare luce sulla tragedia dei “desaparecidos”. L'associazione è implicata in uno scandalo di corruzione legata alla costruzione di alloggi per i poveri ed è legata a doppio filo con i Kirchner, che negli ultimi anni avevano fatto confluire finanziamenti governativi molto generosi nelle sue casse. La tempistica con cui lo scandalo è emerso non è sicuramente ottimale per la ricandidatura di Cristina.

Tuttavia, nonostante queste difficoltà di carattere economico e politico, il potere dei Kirchner sembra destinato ad essere riconfermato e durare ancora a lungo. Almeno fino a quando la congiuntura economica favorirà il sistema produttivo argentino, ancora estremamente dipendente dall'export dei prodotti agricoli.

 

Davide Tentori

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La Cina e i suoi vicini: intervista a Nelson Rand

Nelson Rand è un esperto giornalista freelance che ha vissuto per anni in Asia Sud-orientale lavorando nelle aree di crisi e conflitto. Il Caffè Geopolitico gli ha chiesto cosa ne pensa delle attuali dispute tra Thailandia e Cambogia, per capire come la Cina guardi a questi Paesi e, soprattutto, per capire qual'è il suo ruolo nel loro futuro

CG) Come descrive la disputa di confine intercorrente tra Thailandia e Cambogia? In che modo questa diatriba, che coinvolge anche il Vietnam, sta rafforzando la partnership strategica Sino-Cambogiana?

NR) L'attuale disputa di confine tra la Cambogia e la Thailandia è il risultato della commistione del nazionalismo e della politica interna, utilizzata in tutti e due i Paesi per riempire le agende politiche di entrambi i governi.

Alla Thailandia, questa contesa fornisce una buona occasione per distrarre dai problemi politici del Paese e per creare coesione tra la popolazione a fronte della minaccia proveniente dalla Cambogia, e nello stesso tempo consente ai reparti aggressivi militari di mostrare il loro potere, sia in termini di forza militare contro la Cambogia, che di potere politico ed esercizio dell’influenza in casa.

In Cambogia, la controversia è stata usata dal premier Hun Sen per rafforzare la sua popolarità, alimentando il sentimento nazionalista e mostrando ai cambogiani che lui non ha paura di resistere al loro “grande vicino”.

Egli ha anche strumentalizzato la disputa per rafforzare la posizione di suo figlio, facendo di lui uno dei principali comandanti impegnati a sovrintendere le operazioni di confine. Suo figlio, 33 anni, il Generale Maggiore Hun Manet, è rapidamente asceso nei ranghi militari cambogiani, tanto da ricoprire una posizione di potere e di essere in grado di garantire che l'esercito rimanga fedele a Hun Sen, ed è anche possibile che il padre lo stia già preparando per svolgere un giorno l’incarico di Primo Ministro. (Nella mappa sotto, le zone di conflitto – Fonte: The Nation)

CG) Quale ruolo ha avuto la Cina nelle proteste delle Red Shirts in Thailandia?

NR) La Cina non ha avuto alcun ruolo nelle proteste delle “Red Shirts” thailandesi. Tuttavia, la questione è complessa ed esiste un legame: molti, tra leader e sostenitori delle Red Shirts, sono ex dirigenti o membri del Partito Comunista della Thailandia, che ha beneficiato del sostegno della Cina negli anni '60 e '70, e la dottrina maoista risuona ancora un po’ nella retorica, nelle ambizioni e nella strategia si alcune delle Red Shirts.

CG) Il rafforzamento del dialogo e la cooperazione tra Thailandia, Cina e ASEAN, a livello multilaterale e bilaterale, accresce l’interdipendenza e riduce la possibilità di un conflitto regionale. Qual è la sua opinione riguardo l’opportunità di questa interdipendenza?

NR) Sono d'accordo. Alla fine della partita, la Thailandia non può sfuggire all'ASEAN e ha bisogno della Cina. Questa interdipendenza, che è certamente economica, naturalmente non può che contribuire a ridurre l’eventualità di un conflitto nella regione. La disputa di confine tra la Thailandia e la Cambogia probabilmente coverà ancora per anni, ma la possibilità che si sviluppi in una grande guerra è trascurabile. Thailandia e Cambogia hanno molto più da guadagnare se mantengono buoni rapporti tra loro e nessuno dei due Paesi vuole mettere a rischio i legami con la Cina e l'ASEAN.

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CG) Secondo lei, la Cina sta esercitando un crescente soft power sulla Thailandia? In che modo l’influenza culturale cinese ha condizionato il punto di vista thailandese sulla sua relazione con la Cina?

NR) Direi che il soft power cinese sta aumentando in Thailandia, tanto più sul fronte economico e su quello culturale, e non dovrebbe sorprendere la constatazione che un ruolo importante nel plasmare la moderna società thailandese l’hanno svolto proprio gli immigrati cinesi: il 14% della popolazione è cinese, mentre una percentuale molto più elevata di popolazione ha almeno qualche legame di ascendenza cinese. Recentemente, tre importanti joint ventures cinesi sono state avviate in Thailandia tra cui il progetto Thai-China International City, un centro commerciale di 700 mila metri quadrati nella periferia di Bangkok che diventerà un importante centro di ri-esportazione per i prodotti di fabbricazione cinese nel mercato dell’ASEAN, un centro commerciale all’ingrosso di 3 miliardi di BT (ndr: baht, la moneta thailandese) nella provincia settentrionale di Chiang Mai e un centro di produzione di pneumatici per auto di 5 miliardi di BT nella provincia orientale di Rayong.

CG) Quali sono le aspettative per le Elezioni Generali thailandesi previste per il prossimo 3 luglio?

NR) Le elezioni generali quasi certamente non faranno nulla per risolvere la prolungata crisi politica thailandese e risanare le profonde divisioni del Paese. Comunque vada l’esito delle elezioni si avrà una reazione da una delle fazioni antagoniste. Il risultato più positivo per garantire la stabilità politica nel breve periodo si avrebbe se i democratici in carica ottenessero la maggioranza. Ma questo è uno scenario improbabile. Sarà probabilmente una corsa stretta tra i democratici e l'opposizione, con le Red Shirts di supporto al PeauThai Party. I partiti minori svolgeranno pertanto un ruolo importante nel determinare quale partito si contenderà il governo – e i democratici, dalla loro parte, hanno il vantaggio di riuscire ad influenzare i partiti minori più di altri. Le Red-shirts hanno affermato che accetteranno il risultato elettorale fino a quando le elezioni saranno libere e giuste – ma ovviamente useranno la loro definizione ed interpretazione di "libere e giuste". Ancora più importante, sembra che non accetteranno con piacere l’eventualità che il Peau Thai vinca per il maggior numero di voti ma non possa formare un governo per via dell’influenza che i democratici esercitano sui partiti più piccoli e numerosi- che le Red Shirts interprerebbero come un intervento antidemocratico dei poteri. La mia previsione è che il Peau Thai otterrà più voti dei democratici, ma i democratici condizioneranno abbondantemente i partiti più piccoli che messi insieme consentiranno ai loro alleati di superare in gran numero il risultato, riuscendo così a formare quello che sarà pari più o meno allo stesso governo che è in vigore dal dicembre 2008. Questo darà nuovo slancio alle Red Shirts. E il prossimo appuntamento con le rivolte delle Red Shirts sarà peggio di quello che abbiamo visto finora.

Intervista di Dolores Cabras

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Il Gruppo di Visegrad: un nuovo attore in Europa Orientale?

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La cooperazione militare tra Paesi è sempre argomento delicato. Se poi nascono nuove intese militari nel cuore dell'Europa c'è da chiedersi quale significato abbiano, soprattutto guardando a est, verso la Russia, e ad ovest, verso gli Stati Uniti e la NATO. Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Slovacchia sono al centro di questo interessante caso

RIUNIONI STORICHE – Visegrad, una graziosa cittadina della provincia ungherese, è conosciuta per la riunione che nel 1355 si svolse nell’antico castello omonimo per dirimere le controversie internazionali tra i Re di Polonia, Ungheria, Boemia, il Conte di Moravia, i rappresentanti dell’Ordine del cavalieri teutonici, oltre a numerosi nobili minori. Visegrad è tornata all’onore delle cronache, nel 1991, quando i presidenti di Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia hanno voluto riunirsi nello stesso castello che ospitò la riunione fra i regnanti medioevali della regione. La riunione del 1991 avvenne in un clima di progressiva dissoluzione dell’URSS, che sarebbe avvenuta solo qualche mese più tardi. Lo scopo di tale riunione era quello di gestire la transizione dal sistema del socialismo reale all’economia di mercato e alla democrazia col fine ultimo di ottenere una piena integrazione nel sistema europeo. A tal fine venne istituzionalizzata una cooperazione a livello intergovernativo fra i tre paesi (divenuti quattro con la dissoluzione della Cecoslovacchia in due unità statuali distinte) che ha avuto il suo apice con l’ingresso di tutti e quattro i membri nell’Unione Europea, nel 2004.

IL NUOVO GRUPPO DI BATTAGLIA – Questa cooperazione intergovernativa, che ha avuto una marcata accezione di tipo economico e sociale, si sta progressivamente allargando al campo delle relazioni internazionali. Infatti il 12 maggio scorso, il V4 (acronimo di Visegrad 4) ha deciso la creazione di un “battle group” da porsi sotto il comando polacco. Il battle group (BG – letteralmente “gruppo da battaglia”) è una unità multinazionale di modello europeo organizzata su base regionale e grande all’incirca quanto una brigata (per quanto non esista una dimensione standard). Lo scopo di un BG non è quello di sostituirsi agli eserciti nazionali tradizionali ma di essere una forza bene addestrata e capace di essere inviata rapidamente in aree di crisi per la salvaguardia dei paesi che contribuiscono alla sua composizione, facilitando inoltre la collaborazione tra le rispettive forze armate.

I quattro Stati che costituiscono il V4 sono già membri di tre differenti BGs, e dovrebbero partecipare al nuovo BG con l’assegnazione di 500 soldati ciascuno. Il nuovo BG sarà operativo entro il 2016 e non sarà riconducibile alla struttura NATO. Sempre sul piano militare, dal 2013 le nazioni del V4 inizieranno a svolgere esercitazioni militari congiunte all’interno dell’attività addestrativa della NATO Response Force.

PERCHE' QUESTA SCELTA? – Secondo Stratfor la militarizzazione del Gruppo di Visegrad è stata determinata dalla mutazione dell’assetto geopolitico dell’Europa centro-orientale risalente all’inizio degli anni Novanta. Infatti la decadenza militare russa è stata superata da un nuovo vitalismo di Mosca nel suo estero vicino culminato con la guerra contro la Georgia del 2008. La convinzione che l’avvenire economico di tali nazioni fosse indissolubilmente legato all’UE è andata scemando soprattutto in seguito della attuale crisi economica. Infine, l’affidamento nelle capacità dissuasive della NATO per la difesa degli interessi strategici si è scontrata con un sempre minor coinvolgimento degli Stati Uniti (che prevedono l’impiego di una sola brigata per la difesa della regione) e con l’accresciuta russofilia di diverse potenze europee, Germania in primis, che pongono i paesi del V4 nella difficile posizione intermedia fra l’incudine tedesca e il martello russo. Infatti, per quanto la NATO abbia infatti piani operativi per la difesa dell’est europeo (in particolare Polonia e Paesi Baltici), il grosso della difesa è affidato alle forze armate europee. Inoltre, date le difficoltà e le problematiche politiche legate al ruolo della NATO nei confronti della possibile minaccia russa, il Gruppo di Visegrad giudica necessario provvedere a una politica di difesa propria.

L’ultimo interrogativo che ci si dovrebbe porre è quale valore attrattivo possa detenere il Gruppo di Visegrad nel confronti dei paesi vicini, in particolare Romania, Bulgaria e, in futuro magari anche all’Ucraina. Perché il V4 si allarghi sembra necessario che le tre convinzioni strategiche che lo hanno spinto a militarizzarsi si diffondano nella regione. Al riguardo è lecito chiedersi: gli americani sarebbero pronti a difendere militarmente Bucarest o Sofia? A questo quesito non si può, al momento, dare una risposta certa. Di sicuro la politica di disimpegno da poco annunciata dall’amministrazione Obama nei confronti dell’Afghanistan, e una generale tendenza da parte statunitense alla limitazione dell’impiego delle truppe americane all’estero pare, almeno nel breve periodo, poter dare solo limitate garanzie per il mantenimento della sicurezza dei paesi dell’Europa centro-orientale…

 

Antonio Cocco

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Il dopoguerra: la vittoria mutilata, la crisi, gli Stati Uniti

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All’indomani della fine della Grande Guerra nel 1918, l’Italia, uscitane con una vittoria cosiddetta “mutilata”, si trovò nuovamente a confrontarsi con un ruolo marginale, che faticava ad accettare, all’interno dell’equilibrio geopolitico europeo. Durante il periodo che seguì e fino all’avvento del Fascismo, le relazioni internazionali per l’Italia furono difficili e consistettero nel tentativo di fornire appoggi agli altri governi europei in cambio di benefici e compensi necessari per un Paese che aveva recentemente perso 650.000 soldati e contava 2.000.000 di mutilati 

 

LA FINE DELLA GUERRA– In tutta Europa furono anni magmatici: antiche tensioni risorsero, correnti nazionaliste e nuove ideologie inasprirono contrasti latenti e una nuova superpotenza si affacciò nel panorama del Vecchio Continente, gli Stati Uniti d’America. La Grande Guerra comportò conseguenze diverse ma disastrose: enormi danni materiali in tutta Europa e nel fatiscente impero ottomano, la rottura di tutte le coesistenze di popoli diversi, prima riuniti sotto i vari scettri dinastici affermatisi nei decenni se non nei secoli precedenti, come conseguenza del principio di autodeterminazione dei popoli promosso da Winston Churchill, complicazioni derivanti dall’applicazione letterale dei quattordici punti di Wilson che talvolta favorirono lo sgretolarsi degli Stati e, infine, il diffondersi di azioni militari e paramilitari per stabilire situazioni da imporre successivamente ai plenipotenziari raccolti a Parigi. Oltre a ciò, milioni di soldati rientrati in patria non riuscirono a trovare lavoro in un contesto economico straziato da un impegno bellico senza precedenti. Tali tensioni necessitavano uno sfogo e così nuove ideologie insidiatesi durante il conflitto si diramarono in tutta Europa. Se da un lato, il Marxismo si era definitivamente affermato in Russia a seguito dell’autunno rosso, il pericolo che venisse esportato favorì la nascita di movimenti ultranazionalisti in molti Paesi, tra cui soprattutto, Italia e Germania. Italia, che pur avendo vinto la Guerra, era umiliata da una pace così poco vantaggiosa da essere definita mutilata: nessuna terra irredenta e nessun mandato né sulle colonie provenienti dall’impero ottomano né sulle ex colonie germaniche che furono invece assegnate a Francia ed Inghilterra. La diagnosi di Giolitti fu alquanto esplicativa:

 

“…quando si confrontano così enormi sacrifici e di ricchezza con le condizioni da noi fatte nel trattato di pace e si confrontano queste condizioni con gli splendidi vantaggi ottenuti dai nostri alleati si ha la misura della terribile responsabilità che pesa sopra coloro che gettarono l’Italia in guerra senza prevedere nulla, senza accordi precisi sulle questioni politiche e coloniali…..”

 

L’Italia dimezzata nella sua gioventù e dilaniata da contrasti e tensioni interne era sull’orlo della guerra civile.

 

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UNA DIFFICILE RICOSTRUZIONE- Le basi economiche sulle quali si doveva basare la ricostruzione del Paese erano deboli. Nel 1918, scoppiò la crisi industriale e la conseguente disoccupazione andò a gravare sul settore agricolo, che era ormai saturo. I salari si abbassarono così come gli standard di vita. L’Italia come la stragrande maggioranza delle potenze reduci dal conflitto rispose alla crisi economica riportando la lira al valore che aveva prima del 1914, pensando che una lenta e controllata deflazione avrebbe messo in moto la ripresa. La soluzione raccolse grande entusiasmo. L’unico a denunciarne i possibili rischi fu Keynes, ch, inascoltato anche in Patria, giocò il ruolo di Cassandra, Infatti ne seguì una perniciosa deflazione, primo passo verso la terribile crisi del ‘29. Diverse furono le strategie con cui gli Stati corressero quest’andamento: da un lato, la Germania adottò una politica di armamenti resa possibile grazie ad una gestione pressoché autarchica delle barriere, dall’altro gli Stati Uniti, con il noto New Deal fornivano alle imprese in difficoltà energie a basso costo come volano industriale. L’Italia, dal canto suo, si avvalse dell’intervento dello Stato che accorpò le imprese sull’orlo della bancarotta all’interno dell’Iri e dell’Imi.

 

Fin dall’inizio, dunque, il Fascismo in Italia assunse una dimensione piccolo borghese che fu lodata da molti in un dopoguerra contrassegnato dall’avvento di nuove dittature, camuffate o meno, soprattutto dall’inglese Winston Churchill. Rimane, comunque, da dire che capire la posizione che a quei tempi l’Italia rivestiva nel contesto europeo è difficile in quanto a disposizione si hanno solo i commenti di esaltazione del regime o l’informazione che era lasciata penetrare dall’estero.

 

L’ALBA DEGLI STATI UNITI-L’entrata in guerra degli Stati Uniti a sostegno delle potenze europee impegnate contro gli imperi centrali, l’impero austro-ungarico e la Germania, sancì definitivamente il passaggio da colonia dichiaratasi indipendente nel 1776 a potenza mondiale. Già nel 1823, il discorso Monroe, con cui era stata notificata al mondo la tesi secondo cui l’America dovesse appartenere agli Americani, aveva dato avvio all’estromissione delle potenze europee dal continente e dai relativi affari.

Tale dottrina ebbe un corollario di principi definiti isolazionismo. Gli Stati Uniti si impegnavano non solo nell’estromissione delle potenze europee dalle due Americhe, ma anche a disinteressarsi nelle vicende del Vecchio Continente. Questa posizione si affievolì gradualmente fino a che Theodore Roosevelt, nel 1904, proclamò che gli USA si assumevano il diritto di intervenire in qualsiasi parte del mondo gli interessi americani venissero lesi. La fine dell’isolazionismo avvenne nel 1917, quando il Presidente Wilson si impegnò a fondare, in sede della stipulazione dei trattati di pace che sarebbero susseguiti alla fine della guerra, la Società delle Nazioni, che avrebbe avuto il compito di redimere i contrasti fra gli stati. Il caso volle che gli Stati Uniti non entrassero nell’organismo da loro stessi creato. L’intervento USA fu, comunque, l’ago della bilancia a favore degli alleati. E il fatto pose gli USA in una posizione di superiorità nei confronti di tutte le potenze mondiali; questa superiorità venne tenuta aggiornata con armamenti e basi militari; come la famosa base navale di Pearl Harbour che fu inaugurata nel 1916 e che avrebbe dovuto fungere da scudo verso ogni attacco proveniente dal Pacifico. La strada era tracciata e cosi gli Usa furono gli arbitri della soluzione della Prima Guerra Mondiale.

 

Gloria Tononi

Il Mar Cinese Meridionale, un focolaio di rivalità – II

È il sea power, il dominio sul mare, il centro focale delle ataviche e contrastate relazioni bilaterali sino-giapponesi, che turbano gli equilibri nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale, oscillando tra competizione serrata e cooperazione strategica. Eccovi la seconda parte della nostra analisi sul Mar Cinese Meridionale

 

Leggi qui la prima parte

 

I FATTORI DEL RAPPORTO – Come afferma il Prof. James C. Hsiung, docente di Scienza Politica alla New York University, a caratterizzare i rapporti tra le due più grandi potenze dell’Asia orientale è la combinazione di tre condizioni interagenti:

  1. l’incremento del potenziale strategico del sea power, conseguito al collasso dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda
  2. l’incapacità degli strumenti normativi disposti nella Convenzione sul mare di Montego Bay (le Zone Economiche Esclusive e la Piattaforma Continentale) di risolvere le dispute internazionali sulla sovranità e sullo sfruttamento delle risorse marittime
  3. il riferimento sempre più frequente alla geografia marittima e non solo alla forza militare quale criterio di determinazione della sovranità statale sul mare

Se in passato a governare sui mari erano proprio quegli stati costieri che avevano sviluppato enormemente la flotta marina militare, la crescente importanza acquisita dalla geopolitica delle delimitazioni marittime negli ultimi anni ha indebolito l’eguaglianza tra sea power e potenza navale, incoraggiando la Cina, con le sue 10.800 miglia di costa, a consolidare il proprio dominio sul mare.

Le proiezioni marittime del Paese di Mezzo, storicamente interessato per conformazione morfologica (abbondanza delle terre) a consolidare il proprio potere terrestre, sono dovute essenzialmente alla necessaria dipendenza dalle risorse energetiche extra-continentali e transregionali.

Per coprire il fabbisogno energetico della prima potenza economica asiatica Pechino ha avviato un nuovo orientamento strategico che riflette proprio nel bacino marittimo asiatico il sostegno indispensabile per sostenere gli alti tassi di crescita del 10% annuo. Il 70% del petrolio cinese viene importato dal Medio Oriente e dal Nord Africa via mare, attraverso il transito delle navi petroliere sul Mar Cinese Meridionale e sullo stretto della Malacca, fino in Golfo Persico e oltre. Anche il Giappone, il cui PIL è stimato intorno ai 4000 miliardi di dollari, importa il 90% del suo petrolio e un terzo del totale di gas naturale dal Medio Oriente. Tale dato è significativo del crescente valore geo-strategico dello spazio marittimo, il cui controllo assicura l’accesso all’Oceano Indiano, quindi ai fornitori mediorientali e ai mercati occidentali, l’approvvigionamento delle risorse e la stabilità delle rotte commerciali, quindi delle relazioni economiche internazionali.

 

LA DISPUTA SINO-GIAPPONESE PER LE SENKAKU-DIAOYU – La partita sino-giapponese per l’egemonia regionale si gioca nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale, con la conquista delle risorse energetiche che ricolmano i fondali, le dichiarazioni di esistenza delle piattaforme continentali e di sovranità sull’uno o sull’altro isolotto che costella il braccio di mare asiatico, la creazione di ZEE (Zone economiche esclusive) e il “sea denial”, la negazione dell’accesso al mare.

Al centro della disputa sono le rivendicazioni di Pechino sugli otto isolotti vulcanici inabitati facenti capo alla prefettura di Okinawa, stretti tra Taiwan e le Ryukyu, che i giapponesi chiamano Senkaku e i cinesi Diaoyu, ricchi di risorse minerarie ed idrocarburi.

Sia la Cina sia Taiwan reclamano l’originarietà della sovranità sulle Senkaku, conquistate dal Giappone nel 1895 poi strappate via dagli statunitensi dopo la seconda Guerra Mondiale e riconsegnate ai giapponesi nei primi anni settanta. Da un lato la normativa internazionale ha disposto i diritti dello stato rivierasco allo sfruttamento economico delle isole fino a 200 miglia dalle linee base, confermando la piena potestà del Giappone all’utilizzo delle risorse naturali; dall’altro gli antagonisti Cina e Taiwan disconoscono lo status di “isole” delle Senkaku poiché scogli inabitati, sostenendo l’infondatezza del presupposto giuridico a cui il Giappone si appella per ribadire i propri diritti esclusivi di sfruttamento. Nel settembre 2010 si è raggiunto l’apice della tensione tra i due giganti asiatici con la decisione di Pechino di sospendere i rapporti bilaterali a livello ministeriale con Tokyo e il proposito avanzato dal premier Naoto Kan di avviare l’attività esplorativa del fondo marino sul limite perimetrale dell’area marittima cinese.

 

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CAUSE DI UN LITIGIO – La causa formale e apparente dello scontro era la prolungata detenzione ad Okinawa del capitano di un peschereccio cinese che, trovatosi nel braccio di mare attorno alle Senkaku, secondo le fonti nipponiche aveva speronato due motovedette giapponesi. Le cause non dichiarate, recondite ma concrete, che hanno condotto a questo confronto sono invece molteplici. Prima fra tutte, la corsa al gas e al petrolio non solo nelle acque intorno alle Senkaku ma in tutto il Mar Cinese Orientale e Meridionale, cui segue l’estensione del controllo giapponese sulla porzione di mare appena oltre lo stretto di Taiwan che limita la ZEE cinese, la navigazione in alto mare e i diritti esclusivi di sfruttamento del sottosuolo. Per assicurarsi il controllo sui mari il Giappone ha confidato nella flotta navale e nei missili balistici sottomarini. Così, il progetto cinese di ampliare l’armamentario con lo sviluppo della tecnologia dei missili balistici sottomarini, l’incremento della spesa bellica, il potenziamento della Marina Militare, l’utilizzo dello spazio marittimo per l’impianto di postazioni di ascolto e spionaggio, hanno spaventato i giapponesi che hanno interpretato la strategia di Pechino come una minaccia vitale agli interessi nazionali. Da ultimo, l’avanzata dello yuan cinese, quale potenziale valuta di riferimento nel Sud-Est asiatico, ha preoccupato Tokyo, tenuto conto del recente acquisto di azioni in renminbi operato dalla Banca Centrale della Malaysia.

 

INTERESSE NAZIONALE USA – Gli interessi geopolitici giapponesi nella regione e le rotte commerciali sono tutelati dagli Stati Uniti, la cui US Navy è a presidio del golfo di Yokohama. L’alleanza tra Stati Uniti e Giappone aveva indotto la Cina ad orientare la propria politica energetica verso la costruzione di gasdotti terrestri, consolidando le relazioni interstatali con i Paesi dell’Asia centrale, allo scopo di assicurarsi le forniture di idrocarburi isolando il Giappone ed evitando lo scontro diretto sui mari. Tuttavia, con la dotazione del Dong Feng-21 D, altrimenti chiamato dai militari statunitensi “killer delle portaerei”, un missile balistico della gittata di 3000 chilometri, il governo di Pechino ha virato verso una nuova “politica oceanica”, che mira ad un riassetto degli equilibri di potere nello spazio marittimo attraverso un potenziamento degli avamposti militari ed un affinamento della tecnologia bellica. Il Dong Feng sarebbe in grado di neutralizzare una portaerei statunitense, quindi di destabilizzare l’ordine nel Pacifico costituendo una seria minaccia agli interessi geopolitici di Giappone e Stati Uniti. Geng Yansheng, portavoce della Difesa del governo di Pechino ha dichiarato che “la Cina ha un’indiscutibile sovranità sul Mar Cinese Meridionale e ha sufficienti ragioni legali e storiche per sostenere le sue pretese sui territori marittimi disputati con altri Stati della regione” in risposta all’affermazione di Hillary Clinton, Segretario di Stato degli Stati Uniti, la quale ha sostenuto che “c’è un interesse nazionale degli USA al rispetto del diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale.

Attraverso esercitazioni militari nel mar del Giappone, “iniziative di confidence building” nei Paesi del sud-est asiatico e un generoso piano di aiuti allo sviluppo, Washington punta a ristabilire la propria supremazia sul Pacifico e nell’intera regione, attuando una politica di containment, finalizzata a limitare le crescenti tendenze espansionistiche cinesi e a deregionalizzare la disputa sul Mar Cinese Meridionale. L’internazionalizzazione della questione fornisce un presupposto legittimante per l’ingerenza statunitense nell’area. E la Cina è pronta a difendere i suoi interessi regionali da questo “attacco” statunitense e come ha affermato il vicedirettore della Guardia Costiera cinese, Sun Shuxian, “nel giro di cinque anni allargheremo la flotta con altre 36 navi da pattuglia, che si aggiungeranno alle 300 che sono già in nostro possesso. Inoltre, installeremo nuovi, moderni equipaggiamenti su ogni imbarcazione, per migliorare le capacità di pattugliamento. L’aumento della capacità è necessario per gestire un crescente numero di dispute territoriali”.

 

Dolores Cabras

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Se rinasce il fondamentalismo

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Lo scorso mese di maggio, per la prima volta, il Kazakhstan è stato scosso da due attentati kamikaze in una sola settimana. Entrambi gli eventi si sono verificati davanti agli edifici dei servizi di sicurezza delle città di Astana e di Aktobè. Benché le autorità non abbiano classificato gli attentati come atti terroristici, il sito web locale Tengiz News sottolinea che invece essi rispondono ad un desiderio di vendetta nei confronti dei recenti arresti di alcuni esponenti dell’Islam wahhabbita

L’ISLAM TRA RISCOPERTA E REPRESSIONE – Nell’ex-repubblica sovietica non vi erano state finora tensioni e violenze religiose, ma la rielezione poco trasparente di Nazarbaiev e il suo intento di rafforzare la stabilità dello stato allontanandolo da ogni eventuale contagio proveniente dalla “primavera araba”, ha avuto probabilmente un effetto contrario a quello sperato. Gli avvenimenti kazaki mettono l’accento sul fenomeno del risveglio dell’islamismo in tutte le cinque ex-repubbliche sovietiche.

La religione islamica in quest’area, benché soffocata, censurata e fortemente repressa durante il periodo sovietico non è mai morta sotto gli attacchi del comunismo, ed anzi, durante l’epoca gorbacioviana e della perestrojka prima e la caduta dell’Unione Sovietica poi, è riaffiorata in maniera repentina a dimostrazione della volontà di quelle popolazioni di impossessarsi nuovamente del proprio patrimonio religioso ed identitario, nonchè di colmare quel vuoto ideologico venutosi a creare dopo la fine del comunismo. Per questo motivo, tutti i presidenti delle cinque repubbliche, da una parte si dichiararono immediatamente ferventi credenti, convinti in questo modo di avere maggiore presa nei confronti della popolazione, dall’altra diffidarono nella realtà da ogni forma di islamizzazione politica e gli argomenti e le motivazioni di carattere statale e nazionale presero sempre il sopravvento su qualunque tipo di velleità religiosa.

UN ERRORE STRATEGICO – Con tutta probabilità, alcuni dei presidenti delle repubbliche dell’Asia Centrale, hanno fatto e tutt’ora stanno facendo un grosso errore di valutazione. Stati come il Kazakhstan e il Kirghizistan hanno cercato di mantenere il loro carattere sostanzialmente laico, allo stesso tempo però non hanno tenuto in debito conto l’effettivo peso dell’Islam nella tradizione storico-culturale della popolazione, tanto da arrivare spesso a forme di repressione religiosa, giustificate come necessarie per la lotta al terrorismo internazionale, ma che in realtà avevano lo scopo di consentire al governo di reprimere qualunque forma di opposizione interna. Questo atteggiamento però ha al contrario favorito e rafforzato il temuto Islam militante e radicale proveniente da sud, dall’Afghanistan dei taliban, dell’Arabia Saudita con diffusione del wahhabbismo e dall’Iran. Altri paesi come l’Uzbekistan, invece, hanno inaugurato una politica di riscoperta delle radici islamiche (il presidente uzbeko Islom Karimov nel 2000 prestò giuramento per il suo secondo mandato imponendo la sua mano su una copia del Corano) senza però rinunciare del tutto alla laicità dello Stato. Ciò non deve fare dimenticare comunque che il governo autoritario di Karimov mantiene una morsa molto stretta intorno alle libertà civili e politiche, e utilizzi la ritrovata fede religiosa come strumento di mantenimento del controllo sulla società in nome della sicurezza nazionale e della stabilità politica minacciate dal fondamentalismo islamico appunto.

L’INADEGUATEZZA DEI GOVERNI LOCALI – In questo contesto è fondamentale comprendere peraltro, come le repubbliche centro-asiatiche nel momento in cui divennero Stati indipendenti, mancassero totalmente di quegli strumenti necessari per portare avanti una politica nazionale funzionale allo sviluppo dell’economia e della società civile, e in assenza di una strategia adeguata replicarono semplicemente le politiche che già conoscevano dopo i settant’anni di “dittatura del proletariato” da parte del Partito Comunista sovietico.

Grazie alla precedente militanza nel Partito Comunista locale i nuovi presidenti riuscirono a garantirsi un proficuo controllo del potere strumentalizzando il nazionalismo, la religione islamica, il culto della personalità e l’attaccamento alle tradizioni dei clan o delle etnie, senza occuparsi, invece, della necessità di una transizione verso una forma di governo democratica e della necessità di attuare politiche in grado di favorire la crescita e lo sviluppo degli Stati. 

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GLI ATTUALI SVILUPPI – In questo contesto il risveglio dell’islamismo radicale trova le sue principali radici e motivazioni. La mancanza di una coscienza politica matura e di un attivismo politico positivo da parte della popolazione permette, come si è detto, alla classe dirigente di non attuare alcuna transizione democratica mantenendo l’immobilismo come principale “strategia” politica; a sua volta quest’ultimo unito all’autoritarismo, alla generale corruzione che caratterizza i governi locali, all’aggravarsi del divario sociale esistente all’interno della società, soprattutto tra città e zone rurali (queste ultime caratterizzate da una forte povertà e dalla presenza di un forte sentimento religioso) e lo sfruttamento delle risorse energetiche gestito in modo scorretto, i cui introiti non vengono re-distribuiti tra la popolazione, diviene il miglior incentivo per il rafforzamento del movimento fondamentalista che assume la funzione di importante fattore di coesione sociale. L’attuale situazione politico-sociale sta spingendo, quindi, le cinque repubbliche nella direzione favorevole alla crescita e all’espansione dei movimenti islamici radicali, a scapito dell’Islam moderato che aveva sempre caratterizzato questa aree.

ARMI A DOPPIO TAGLIO – La repressione che i governi locali attuano nei confronti delle frange islamiche fondamentaliste finisce per legittimarle maggiormente agli occhi della popolazione considerato che la classe politica non è assolutamente in grado di rispondere a quelle richieste di giustizia sociale che provengono dalla popolazione, allo stesso tempo l’Islam radicale però mina alle basi lo sviluppo e la crescita di quel capitale umano indispensabile allo sviluppo economico, spazzando via anche quella parte di eredità positiva legata alla cultura scientifica e all’industrializzazione lasciata dal periodo sovietico. Per i governi dell’Asia Centrale l’Islam svolge quindi un doppio ruolo funzionale al mantenimento dell’immobilismo politico e al mantenimento delle elité al potere. Esso è allo stesso tempo causa e giustificazione della mancanza di sviluppo economico e di progresso politico. Verosimilmente questo è ciò che sta avvenendo per la prima volta in Kazakhstan. Il carattere laico dello stato e la politica di armonia tra le diverse etnie che vivono nel paese promossa da Nazarbaiev non è più in grado di contenere il risveglio islamico, e la repressione di quest’ultimo accompagnata dalle lacune nel campo dello sviluppo non fa altro che esacerbare le azioni violente del radicalismo che fino a poco tempo fa erano sconosciute al Paese.

Marianna Piano

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Caffè150

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Centocinquant'anni di politica estera. Storia e prospettive di una geopolitica italiana. Leggi qui il piano di presentazione dello speciale

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