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Vecchi problemi, nuove soluzioni?

Caffè Nero – Torna l’appuntamento con la rubrica “7 Giorni in un Ristretto” dedicata al continente africano. Questa settimana parliamo della ricerca di stabilità politica in Costa D’Avorio, ancora lontana nonostante l’allontanamento dal potere di Laurent Gbagbo, dei vent’anni dalla nascita del Somaliland, Stato “secessionista” dalla Somalia ma ancora privo del riconoscimento internazionale, e ancora di Nigeria, Sudan e Marocco.

COSTA D’AVORIO – Nonostante le elezioni passate, in Costa d’Avorio si respira ancora tanta insicurezza. Le violenze perpetrate prima, durante e dopo le elezioni politiche hanno riaperto vecchie ferite e faide etniche, politiche e religiose facendo aumentare gli sfollati interni e i profughi fuggiti. I crimini di guerra coinvolgono gli schieramenti sia del presidente uscente che di quello in carica. Tutto si muove scandito da senso di vendetta , in cui si mescolano gruppi armati, forze regolari e paramilitari a mercenari e ribelli.  La paura viene poi alimentata da voci che circolano e che fanno temere una controffensiva delle reduci forze fedeli a Gbagbo che pare si siano raccolte al confine con il Ghana. Bisogna monitorare come penserà di agire Ouattara, durante il suo mandato, per assicurare una stabilità e pace al paese. 

SOMALILAND – Il 18 Maggio si è celebrato il “compleanno” dello stato Somaliland che si rese autonomo separandosi dalla Somalia circa vent’anni fa . L’esistenza di questo stato (nella foto un monumento dedicato all'indipendenza) viene testimoniata grazie alle mappe più aggiornate, ma nessuno ne parla, dato che è privo di riconoscimento internazionale e possiede le caratteristiche delle entità politiche che possono essere comprese nella categoria degli “Stati falliti”. La scommessa di questi neostati è uscire dall’ombra in cui versano. Il Somaliland con la sua capitale Hargeisa, hanno puntato sul consolidamento politico ed economico anche per lasciare alle spalle anni di dure e sanguinose repressioni sotto il regime di Siad Barre. La vicinanza alla Somalia, che nonostante sia inserita in Programmi di sviluppo internazionali, vive una guerra continua e funesta e sprofonda sempre più nel baratro, costringe il Somaliland a lottare con tutte le sue sole forze non solo per cercare di affermare la propria autonomia e solidità, ma soprattutto per sfidare e difendersi dalle proiezioni negative dei vicini.

NIGERIA – Le elezioni sono trascorse, il neo-eletto presidente Jonathan si è insediato, ma le violenze non cessano. Nella Nigeria occidentale una bomba è esplosa provocando decine di morti e ancor più feriti, senza che al momento ci sia stata alcuna rivendicazione. Lo sguardo del nuovo presidente dovrà andare oltre, trovandosi dinanzi il più popoloso stato africano e una rabbia latente pericolosa.

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SUDAN – Ottenere la stabilità in Darfur sembra un traguardo irraggiungibile soprattutto se si pone lo sguardo al passato e agli innumerevoli tentativi di pervenire ad un accordo di pace. Dopo le ultime vicende che hanno portato all’occupazione del distretto petrolifero, si è tentata l’ennesima bozza di accordo approvata in Qatar e guidata dal ministro per gli Affari Esteri Ahmad bin Abdullah al-Mahmoud, che vorrebbe l’immediato cessate il fuoco.  Le basi sembrano più solide rispetto ai precedenti accordi, ma bisognerà vedere se i ribelli che combattono il governo di Khartoum, siano disposti ad abbandonare le loro riserve. Tale accordo andrà ratificato tra tre mesi, ma lo scetticismo che ciò avvenga è molto alto. 

MAROCCO – Continuano le proteste in Marocco in cui si chiedono una ventata di cambiamenti in nome di una costituzione democratica e che il re limiti i suoi poteri. Dal 15 Maggio però si è inasprita la violenza con cui il governo reprime le manifestazioni che soprattutto nella capitale sembrano pacifiche e numerose. il governo, che fino ad oggi aveva mantenuto un'immagine moderata, teme di ritrovarsi dinanzi la violenza delle rivolte dei paese nordafricani.

Nei prossimi giorni dovrebbero essere presentate delle riforme costituzionali che modificherebbero l'attuale status quo e l'intero apparato del potere.

ETIOPIA – E’ stata rinviata la convalidazione del trattato (Cfa) che ridurrebbe la cubatura d’acqua per il Cairo, e la cui ratifica faceva temere una reazione violenta da parte dell’Egitto. La questione delle acque del Nilo resta ancora un nodo difficile su cui bisogna lavorare nonostante il rapporto tra Addis Abeba e Il Cairo riprenda meno aspro. La forza viene soprattutto dall’aumento degli investimenti egiziani in Etiopia. In questo quadro, non bisogna dimenticare la posizione e la funzionalità strategica del Sudan e l’importanza di rivedere i precari equilibri dopo la proclamata indipendenza del Sud Sudan.

Adele Fuccio

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La vittoria della paura?

Il ballottaggio in Perú ha decretato che il nuovo Presidente è Ollanta Humala, leader della sinistra populista. Sconfitta Keiko Fujimori, figlia dell'ex dittatore di destra Alberto, a capo di un regime fortemente autoritario negli anni '90. Lo scrittore peruviano Vargas Llosa aveva descritto il ballottaggio come “la scelta tra il cancro e l'Aids”, dato che entrambi i candidati rappresentavano posizioni politiche estreme. La vittoria di Humala può essere considerata come una reazione dei peruviani al timore di una nuova deriva autoritaria?

ALLA FINE CE L'HA FATTA – Al secondo tentativo, Ollanta Humala è Presidente del Perù. Leader della coalizione elettorale di sinistra “Gana Perù”, Humala aveva già partecipato alle elezioni del 2006, quando era stato sconfitto al ballottaggio da Alan Garcia nonostante avesse vinto al primo turno. Questa volta, però, la vittoria è sua: al secondo turno che si è svolto domenica 5 giugno, il leader di origini indigene ha sconfitto la rivale Keiko Fujimori, oriunda di origine giapponese ed esponente del movimento di destra “Fuerza 2011” e figlia dell'ex dittatore Alberto. Le urne hanno decretato che Humala è il nuovo Presidente della nazione sudamericana con uno scarto compreso tra i 2 e i 4 punti percentuali: lo scrutinio al momento in cui scriviamo non è ancora del tutto completo.

Le urne, dunque, restituiscono un esito che ridimensiona le componenti più moderate dello schieramento politico peruviano: al primo turno, infatti, i partiti di centro-destra e centro-sinistra avevano pagato la loro frammentazione fra i tre candidati (Toledo, Kuczinsky e Castañeda) consegnando il Paese nelle mani dei due candidati considerati “estremisti”. Da una parte Humala incarnava il pericolo del “Chavismo”, data la vicinanza ideologica con il presidente autoritario del Venezuela, mentre dall'altra Fujimori rappresentava lo spettro del possibile ritorno della dittatura di destra che i peruviani dovettero soffrire negli anni Novanta.

 

TURARSI IL NASO? – E' possibile, dunque, che i peruviani si siano “turati il naso” e siano andati al ballottaggio scegliendo il male minore? Mario Vargas Llosa, noto scrittore peruviano ed ex premio Nobel, aveva definito il secondo turno come la scelta tra “il cancro e l'Aids”, mettendo in guardia sul pericolo di una deriva autoritaria e populista, qualunque dei due candidati avesse vinto. Vargas Llosa si era poi convinto a votare Humala considerandolo come una scelta obbligata, segno che la paura che potesse tornare una “Fujimori” al potere fosse una ragione sufficiente per votare l'altro candidato. E' possibile che parte della vittoria di Humala possa essere spiegata con questa chiave di lettura, ma è una spiegazione parziale e riduttiva del consenso che i due candidati hanno ottenuto al primo turno. Il candidato di “Gana Perù” aveva già ottenuto il 31% dei consensi al primo turno mentre Fujimori si era fermata al 23%: dato che il divario al ballottaggio si è assottigliato, la spiegazione di un “fronte democratico comune” contro il ritorno della destra non regge.

Il voto di domenica è dunque piuttosto l'indice di una forte polarizzazione politica e sociale in Perù, fattore che potrebbe destare qualche campanello di allarme perchè potrebbe minare la stabilità istituzionale e di riflesso la straordinaria crescita economica di cui la nazione sudamericana è stata protagonista negli ultimi anni.

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LA BORSA CROLLA – Le istituzioni economiche e finanziarie peruviane, intanto, non hanno accolto affatto bene la notizia della vittoria di Humala. Ieri la borsa valori di Lima è stata chiusa per eccesso di ribasso e ha chiuso la giornata con una perdita del 12%, segno che il mercato non ha fiducia nel leader di sinistra, per il timore di nazionalizzazioni ed espropri sull'onda di quanto accaduto in Venezuela e Bolivia negli ultimi anni. Ollanta Humala, in realtà, in campagna elettorale ha solennemente promesso che non toccherà l'economia di mercato e che rispetterà l'autonomia dei media. Il candidato di “Gana Perù” aveva anche preso le distanze da Chávez cercando di prendere come proprio modello politico l'ex presidente brasiliano Lula da Silva.

I primi passi del nuovo Governo, che sarà costruito su una maggioranza fragile, dato che le elezioni del primo turno hanno decretato un'elevata frammentazione del Parlamento, saranno molto importanti per vedere in quale direzione si muoverà il nuovo Perù. Anche gli investitori stranieri, da alcuni anni molto attivi per la presenza di giacimenti di idrocarburi, terranno sicuramente gli occhi molto aperti. A Humala il compito di rassicurare tutti quanti e di proseguire sul cammino della crescita (+ 8% nel 2010 e +6,5% atteso nel 2011) e della riduzione della povertà.

 

Davide Tentori

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La Cina e i suoi vicini

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Il Caffè Geopolitico lancia uno speciale per approfondire l’espansione dell’influenza cinese nei confronti dei suoi “vicini minori”, e raccontarvi come nascono gli interessi strategici e gli orientamenti geopolitici che condizionano le dinamiche della regione. Esamineremo il progetto strategico cinese, le relazioni con i Paesi vicini e con le organizzazioni regionali. Un appuntamento settimanale con la geopolitica nell’Asia sud-orientale

IN PRINCIPIO FU LA DISTENSIONE – Nei primi anni novanta, la distensione internazionale seguita alla fine della Guerra fredda e dell’ordine mondiale bipolare, all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, ha favorito l’affermazione di nuovi poli economici ed industriali.

Lo scacchiere geopolitico del sud-est asiatico, da teatro di confronto ostile dei blocchi, sovietico e atlantico, è divenuto il nucleo focale degli interessi strategici della nuova potenza economica mondiale, la Cina.

È in Asia sud-orientale, che la Cina considera da sempre una propria zona di influenza, che si gioca la competizione con i Paesi più forti della regione, Giappone e India.

È a partire dall’Asia sud-orientale che la Cina consolida il suo progetto di ascesa pacifica e la sua strategia di sviluppo economico, ed è in questa regione che la Cina esercita il proprio soft power, facendo leva sullo storico retroterra culturale, con l’ambizione di riconquistare il suo tradizionale ruolo di tutore degli equilibri e della sicurezza regionale.

POI VENNE LA CINA – Analizzeremo le relazioni internazionali bilaterali e la partecipazione alle azioni multilaterali promosse dagli organismi regionali, la cooperazione economica e i modelli di sviluppo, il consolidamento dell’interdipendenza commerciale e l’influenza culturale, la competitività interna e la corsa all’approvvigionamento delle risorse.

Scandaglieremo gli equilibri regionali, oscillanti tra cooperazione e competizione tra Stati, in riferimento al Mar Cinese Meridionale, raccontandovi la disputa sino-filippina per l’affermazione della sovranità sulla miriade di isolotti dell’arcipelago delle Spratly e la contesa sino-giapponese per la supremazia nell’area.

Sottolineeremo come la stabilità del Mar Cinese Meridionale sia divenuto un interesse nazionale statunitense e presupposto non negoziabile, per la rilevanza strategica dei corridoi marittimi che accedono all’Oceano Indiano e per quella energetica, dato l’ingente bacino di idrocarburi fossili giacenti nei fondali.

Il nostro racconto proseguirà con l’analisi delle relazioni bilaterali e multilaterali tra la Cina, i Paesi del Sud-Est asiatico e le organizzazioni regionali. Dalla cooperazione strategica economica e commerciale, agli aiuti allo sviluppo, dagli interventi infrastrutturali, alle reti di comunicazione, dalle joint oil exploitation alla costruzione di oleodotti e di canali al progetto congiunto sino-thailandese del Kra Canal, dalla convergenza di intenti per la neutralizzazione delle spinte centrifughe promanate dai movimenti separatisti di matrice islamica alla politica del “filo di perle”.

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NON SOLO ECONOMIA – Esamineremo poi l’efficacia dell’esercizio del soft power cinese in Cambogia, il rafforzamento della partnership sino-cambogiana e l’indebolimento della storica influenza thailandese.

Approfondiremo la questione della rivalità indo-cinese per il controllo delle rotte commerciali solcate dalle petroliere che giungono dal Golfo Persico e la crescente importanza geopolitica del Myanmar e del Laos per Pechino in questa nuova sfida.

Riscontreremo i pieni e vuoti della diplomazia multilaterale cinese cercando di rispondere ad un interrogativo sostanziale: la partecipazione del Paese di Mezzo al consesso dell’ASEAN in qualità di dialogue partner indebolisce l’organizzazione regionale, incoraggiando la silenziosa conquista cinese, o rappresenta un limite per le mire egemoniche di Pechino?

Analizzeremo, da ultimo, il fenomeno migratorio cinese nel Sud-Est asiatico quale strumento strategico di influenza politica e culturale, esercizio della charme policy.

Questo Caffè Speciale è curato dalla nostra Maria Dolores Cabras.

Gustatevelo.

 

La Redazione

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Il popolo dice: ‘Avanti Correa!’

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Recentemente ha avuto luogo in Ecuador un importante referendum popolare il cui esito ha rafforzato la posizione politica del presidente in carica Rafael Correa. Il 7 maggio, infatti, gli ecuadoriani sono stati chiamati alle urne per pronunciarsi su ben dieci quesiti referendari, alcuni di primaria importanza per il riassetto del sistema giudiziario, amministrativo e di sicurezza dello Stato, altri di secondo ordine. Vediamo cos’ hanno deciso col loro voto 

CORREA IL RIFORMISTA – E’ dal 2006, anno del suo primo mandato presidenziale, che Correa porta avanti il suo progetto politico denominato Revolución Ciudadana che prevede una serie di riforme volte a modificare vari settori della società, dalla politica all’economia passando per la giustizia e la sicurezza dello Stato.

Correa, uno degli esponenti del nuovo socialismo dell’ America Latina, sulla scia dei suoi omologhi  Hugo Chávez ed Evo Morales (presidenti rispettivamente di Venezuela e Bolivia), ha potuto contare in questi anni soprattutto sul consenso delle fasce più disagiate della popolazione ecuadoriana anche se non sono mancati recenti scandali che hanno colpito lui e il suo partito, ma anche fatti che ne hanno rafforzato l’ immagine agli occhi dell’ opinione pubblica come il fallito colpo di stato del 30 settembre 2010, ordito da parte delle forze militari e di polizia.

La vittoria del fronte del si, sostenuto da Correa in questa tornata referendaria, in tutti i quesiti ha un peso politico importante dato che rappresenta una sorta di “fiducia extraparlamentare” e quindi popolare che gli è stata rinnovata e che, secondo gli analisti, manterrebbe ben salda la sua leadership fino alle prossime elezioni del 2013 mettendo in luce la debolezza delle opposizioni.

UN REFERENDUM RICCO DI CONTENUTI – I quesiti sui quali i cittadini ecuadoriani sono stati chiamati a pronunciarsi, come detto, sono stati dieci. Di questi, i primi cinque erano dedicati ad una vera e propria modifica di articoli costituzionali, mentre gli altri si riferivano ad una più ampia riforma sociale in diversi settori, ad esempio l’ approvazione di una legge anticorruzione che consideri reato l’ arricchimento privato ingiustificato o l’ obbligo d’ iscrizione per le imprese dei propri dipendenti all’ Instituto Ecuatoriano de Seguridad Social al fine di evitare lo sfruttamento dei lavoratori. Altri due quesiti erano squisitamente di carattere tecnico, con l’ obiettivo di riformare il sistema penale ed in particolare la detenzione preventiva aumentandone i tempi di decorrenza e prevedendone la sostituzione con misure restrittive più lievi solo nei casi di reati di minore gravità. Tali quesiti, sui quali gli ecuadoriani si sono ancora una volta espressi positivamente, avrebbero lo scopo di migliorare la sicurezza cittadina, evitare l’ impunità e garantire la comparizione nei giudizi penali delle persone processate.

Altri quesiti, infine, avevano un contenuto di minore importanza come la chiusura delle corride per evitare la tortura e la soppressione degli animali, la chiusura dei casinò quale deterrente al riciclaggio di denaro sporco e la regolamentazione etica dei programmi televisivi.

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VINCE IL SI’ MA… – Nonostante, quindi, il si abbia vinto in misura schiacciante nella maggior parte delle province del paese (ben 18 su 24) non vi è dubbio che soprattutto i quesiti referendari riguardanti la riforma della Constitución ecuadoriana, ed in particolare della macchina della giustizia, abbiano lasciato non poche perplessità negli analisti. Le polemiche riguardano soprattutto la ristrutturazione della Función Judicial, uno dei tre classici poteri dello Stato, che verrebbe fatta con la creazione di una commissione tecnica composta da tre delegati di nomina politica. I più critici, infatti, denunciano che dare il potere di riformare la giustizia a soggetti istituzionali di derivazione politica minerebbe i principi di autonomia ed indipendenza che il sistema giudiziario deve avere in uno Stato di diritto.                                                                                                                    Altro punto referendario rilevante, approvato dagli ecuadoriani, è quello relativo ad una modifica costituzionale ai fini di evitare potenziali conflitti d’interesse nel mondo finanziario ed economico. Questo quesito evidenzia la matrice socialista moderna del governo Correa, che vuole ideologicamente evitare che si crei un intreccio nebuloso d’interessi economico – politici, pericolosi per la democrazia, tra il mondo dell’imprenditoria e quello della comunicazione e della finanza. Il quesito n. 3, infatti, chiedeva ai cittadini di esprimersi sulla proibizione per i direttori e principali azionisti di istituzioni del sistema finanziario privato e di imprese di comunicazione private di essere  al contempo proprietari o avere partecipazioni azionarie fuori dall’ ambito finanziario o imprenditoriale nel quale già operano.

PER ORA…UN SUCCESSO POLITICO – In definitiva non sappiamo quanto tempo dovrà passare prima che l’ esito referendario sia trasformato in fatti, cioè in norme da parte della Asemblea Nacional e dal governo in carica. Tuttavia ciò non fa venir meno, come detto, l’importanza politica di questa vittoria. Nonostante il progetto di riforma sociale possa sembrare molto ambizioso, Correa porta a casa ancora una volta, infatti, l’ approvazione popolare come nei cinque referendum indetti a partire dalla sua prima elezione, nel 2006. Ciò vuol dire che il presidente in carica gode ancora di una grande popolarità in Ecuador e che fondamentalmente, almeno per i temi di politica interna, continui ad avere l’ appoggio della maggioranza degli ecuadoriani. Le opposizioni, invece, tra le quali spicca la Sociedad Patriótica di Lucio Gutiérrez, rivale di Correa alle presidenziali 2009, paiono aver ricevuto una tremenda “scoppola” dal risultato di questo referendum dal quale sono uscite decisamente sconfitte. In vista delle elezioni presidenziali del 2013, quindi, sarà necessario che si ricompattino cercando temi di convergenza concreti ed originali per avere ragione di un rivale che per il momento sembra ancora godere di un consenso plebiscitario.

Alfredo D’Alessandro

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Luci ed ombre di uno statista

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Parlare di Giovanni Giolitti significa parlare di uno dei più importanti statisti della storia nazionale. Al di là delle critiche, spesso aspre, di cui è stato oggetto da parte di contemporanei e posteri, sotto la sua guida l’Italia ha compiuto i passi indispensabili a trasformarsi in una moderna democrazia liberale popolare. Il giudizio sul suo operato è stato però offuscato dalle responsabilità del politico piemontese nell’aver in parte favorito l’ascesa del fascismo

 

LUNGO CORSO – Giolitti è una figura fondamentale nel panorama politico italiano, prima di tutto per la lunghezza del periodo in cui la sua influenza ha determinato gli indirizzi della politica del Regno d’Italia. Giolitti ha guidato per 5 volte il Governo in qualità di Primo Ministro: dalla prima volta nel 1892 fino all’ultima nel 1921. Al di là dei periodi in cui è stato nominalmente a capo dell’esecutivo, in tutto questo arco di tempo il politico, nato a Cavour in provincia di Torino, ha fatto sentire costantemente, in maniera determinante, la sua influenza sulla politica del Paese. Egli era un fine stratega del gioco parlamentare, capace di costruirsi nel tempo importanti alleanze e di scegliersi il momento più propizio per sferrare offensive dai banchi della maggioranza o dell’opposizione. Questo suo lato di calcolatore e manipolatore fu naturalmente oggetto di critiche da parte di coloro che l’accusavano di essere un dittatore non dichiarato.

 

Ma Giolitti non rivolgeva la sua attenzione solo al Parlamento, anzi si può dire che creare e distruggere maggioranze politiche e governi non era il fine, ma il mezzo per ottenere i suoi scopi che guardavano più al Paese reale che a quello, ancora per nulla rappresentativo, dell’assemblea parlamentare. Sotto la sua iniziativa più o meno diretta sono state varate fondamentali riforme che si situavano all’avanguardia nel panorama internazionale. Un esempio lampante è costituito dalla legge del 1912 che istituiva il suffragio universale: una legge fortemente voluta dallo statista e preparata con una delle sue classiche ampie manovre parlamentari. Esponendosi di persona con un celebre discorso in aula (che provocò la caduta del Governo allora in carica di Luzzati anch’egli di fede giolittiana), Giolitti favorì in modo determinante l’accettazione da parte dell’emiciclo di un suffragio universale maschile, che i campioni dell’Europa liberale del tempo, Francia e Inghilterra, avrebbero adottato solo anni dopo. Questa mossa rientrava nella grande strategia di Giolitti che mirava ad includere le nascenti forze popolari, in special modo socialiste, nella vita politica ufficiale del Paese.

 

UNA STORIA EUROPEA – Il figlio del cancelliere del Tribunale di Mondovì aveva iniziato la sua carriera politica in anni di grande turbolenza sociale in Italia e in tutta Europa. Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, tutto l’occidente industriale si andavano diffondendo sempre più le idee socialiste e anarchiche. Alle rivendicazioni popolari il potere costituito rispondeva con una spietata repressione. In Italia un grande esempio della brutalità e ottusità delle forze della repressione era stata fornita dai fatti di Milano del 1898. La sproporzionata reazione alle proteste dei proletari milanesi per l’aumento del prezzo del pane da parte delle truppe del famigerato Bava Beccaris, che aveva disperso la folla a cannonate, aveva causato tra i manifestanti circa 100 morti. Il generale era stato poi premiato dal Re per questa eroica azione con una bella medaglia. La risposta a questa strage arrivò due anni dopo quando l’anarchico di Prato Gaetano Bresci tornò in Italia dal New Jersey dove era immigrato per uccidere a rivoltellate il Re Umberto I, mentre rientrava in carrozza alla Villa Reale di Monza. La lotta di classe era nella sua fase più acuta non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. In Francia il Presidente della Repubblica Carnot era caduto sotto i fendenti di un anarchico di origine italiana. Lo scontro si faceva ogni giorno più acceso.

 

Per risolvere il problema Giolitti mirava all’inclusione dei partiti di sinistra estrema nell’agone politico ufficiale, in modo da renderli corresponsabili della situazione politica generale e più moderati nelle loro rivendicazioni. Per convincere i socialisti ad abbandonare l’obiettivo di abbattere lo Stato e invece iniziare a collaborare con esso, bisognava dimostrare che questa mossa avrebbe portato loro vantaggi concreti come appunto l’allargamento del censo alle classi sociali da cui provenivano i loro elettori.

 

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ANCORA COLONIE – Il progetto di inclusione dei socialisti si arenò però nel momento in cui nel 1911 il governo presieduto da Giolitti dichiarò guerra alla Turchia e incominciò l’invasione della Libia. Dalla cocente sconfitta di Adua, una buona parte dell’opinione pubblica borghese e conservatrice sognava una rivincita e un’espansione del territorio coloniale. Il primo ministro italiano non era in verità un fautore della guerra, ma la pressione dei vari circoli nazionalisti e colonialisti era talmente forte da aver portato il governo a rompere gli indugi e iniziare una lunga occupazione militare. La Nazione per l’ennesima volta non ottenne il tanto agognato prestigio a livello internazionale, tanto ricercato dal “partito delle colonie”, mentre dal punto di vista economico l’invasione della Libia non si dimostrò certo un affare. L’avventura militare minò inoltre qualsiasi possibilità d’intesa con le forze socialiste tra le quali prese forza l’ala massimalista. Il progetto giolittiano si arenò nelle sabbie libiche e si dissolse del tutto nel fango delle trincee della Prima Guerra Mondiale che da lì a pochi anni avrebbe coinvolto il Paese (contro lo stesso volere di Giolitti).

 

Nuovamente primo ministro nel cosiddetto biennio rosso, Giolitti tentò di riproporre la strategia di istituzionalizzazione con le forze fasciste. La situazione nel Paese era nel frattempo molto cambiata, soprattutto in seguito al primo conflitto mondiale, il risultato fu quello di favorire l’affermazione del movimento mussoliniano. Senza una ferma opposizione istituzionale il movimento fascista attecchì e quando il “grande manipolatore” si accorse di aver fatto male i calcoli, i suoi pur significativi appelli a una resistenza democratica non trovarono più nelle forze politiche e nella monarchia interlocutori pronti ad assecondarli.

 

Jacopo Marazia

Se la Cina compra meno armi dai russi

Il commercio in armi e tecnologie militari tra Russia e Cina è stato negli ultimi vent’anni una delle certezze dei rapporti commerciali bilaterali tra i due paesi. Dal 2008 in poi, però, la Cina ha ridotto notevolmente l’acquisto di armi russe, pur aumentando considerevolmente le spese militari

PARTNER COMMERCIALI “NATURALI” – Dal collasso dell’Unione Sovietica in poi, la Russia è stata il partner commerciale principale a cui la Cina si è rivolta per l’acquisto di armi e tecnologie militari. Durante l’era Gorbaciov venne aperta una finestra commerciale, favorita anche dall’embargo imposto dall’Occidente alla Cina a causa degli scontri di piazza Tienanmen, che fu mantenuta anche dopo il 1991, quando la Russia si trovò ad essere un Paese in piena crisi economica e istituzionale con un arsenale militare moderno e vastissimo, che poteva essere in parte rivenduto all’estero per finanziare la riorganizzazione interna. Favorito da queste condizioni, si stabilì un sodalizio sino-russo sul commercio in armamenti russi verso la Cina, che è cresciuto stabilmente negli ultimi vent’anni fino a coprire all’incirca il 50 % delle esportazioni totali russe in armi. Molto importante per la crescita è stato il ruolo del MIC (Military Industry Complex) russo, gruppo di pressione interno in grado di influenzare la politica estera di Mosca e di utilizzare lo Stato come strumento di trasmissione dei propri interessi. Il MIC è stato infatti il maggiore sostenitore del commercio con la Cina come via per la sopravvivenza e l’innovazione delle tecnologie militari russe. Infatti, due elementi hanno fatto sì che l’esportazione divenisse per l’industria militare russa l’unica via verso la sopravvivenza: (1) l’approvvigionamento domestico per le forze armate e il budget per mantenere le forze esistenti hanno subito una forte riduzione nella nuova Federazione Russa; (2) i fondi governativi per la ricerca e lo sviluppo sono praticamente nulli e le compagnie hanno bisogno di esportare armi per finanziare i loro programmi di ricerca e sviluppo, e mantenere la loro competitività sul mercato globale degli armamenti.

A questi incentivi interni al commercio, si aggiungono i vantaggi che entrambi i Paesi guadagnano dalla cooperazione a livello più ampio. I rapporti militari bilaterali sino-russi infatti, permettono a entrambi di avere un maggiore contrappeso strategico nei confronti di alcune minacce dell’era post guerra fredda, come l’unipolarismo USA, la crescita dell’influenza giapponese in Asia e il terrorismo islamico in Asia Centrale.

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NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA – In passato, la vendita di armi e tecnologie alla Cina è stata oggetto di critiche e preoccupazioni da una parte dell’establishment di potere russo, che riteneva pericoloso armare Pechino. Russia e Cina infatti hanno mantenuto aperte dispute territoriali su varie aree dei loro 4,200km di confine comune (terminate soltanto nel 2008 con la cessione di territori da parte della Russia) e la vendita di armi alla Cina significava per alcuni armare un potenziale attacco nemico. Tuttavia, nonostante i timori sollevati da alcune aree della classe dirigente, le élite militari hanno continuato a ribadire l’assoluta sicurezza del commercio in armi con Pechino. La Russia infatti si è tutelata limitando la vendita alle tecnologie meno avanzate e ha sempre escluso dalla commercio brevetti e tecnologie che avrebbero potuto dare alla Cina la possibilità di produrre autonomamente le proprie armi. Inoltre, gli acquisti militari cinesi si sono concentrati su Taiwan e sul Mare Cinese Meridionale e dunque riguardavano principalmente tecnologie navali, piuttosto che armamenti di terra potenzialmente utilizzabili in caso di tensioni con la Russia.

Questi accorgimenti hanno permesso al Cremlino di godere di buoni vantaggi: crescita del commercio e protezione dalle minacce. Tuttavia, da tre anni a questa parte, la Cina ha ridotto drasticamente l’importazione di armi dalla vicina Russia e alla base del declino sembrano esserci proprio quelle limitazioni che la Russia ha imposto per tutelare la propria sicurezza e mantenere il proprio primato sulla vendita di armi nella regione.

PROSPETTIVE FUTURE – La Cina ha dimezzato di anno in anno l’acquisto di armi, passando dai 1331 miliardi di dollari del 2008 ai 410 del 2010. Pechino ha inoltre smesso di comprare sistemi militari completi dalla Russia, principalmente perché l’industria militare cinese ha sviluppato la capacità di costruire autonomamente le tecnologie d’era sovietica che la Russia le continua ad offrire. La Cina sta insomma reagendo al rifiuto russo di venderle tecnologie d’avanguardia cercando una maggiore autosufficienza produttiva e un proprio spazio nel commercio in armi. Questo cambiamento nella politica cinese impone una riflessione e una reazione da parte del Cremlino, che rischia ora di vedere un cambiamento a proprio sfavore dell’equilibrio militare esistente nella regione dell’Asia-pacifico. Il rischio maggiore che si profila per Mosca è la potenziale abilità da parte cinese di utilizzare le armi importate dalla Russia come base per migliorare la qualità delle proprie esportazioni militari, anche se per ora la Cina ha scalzato la Russia nella vendita di armi soltanto in alcuni Paesi del terzo mondo. Tuttavia, il pericolo principale per la Russia però è proprio quello di essere surclassata in futuro dalle esportazioni a basso costo di armi cinesi e di perdere così quote di mercato a favore del suo ex – miglior cliente.

 

Tania Marocchi

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Confini inamovibili… oppure no?

Le recenti questioni mediorientali hanno riproposto il problema della soluzione a due stati per Israele e Palestina e in particolare del problema dei confini. E’ davvero possibile tornare ai confini del 1967 con una situazione strategica e demografica che ha subito oltre quarant’anni di modifiche?

 

DIETRO LA FACCIATA – Nella questione israelo-palestinese è importante guardare al di là delle singole dichiarazioni diplomatiche perché spesso sono tarate apposta per non compromettere mai nessuna delle parti anzitempo. Il Presidente USA Obama ha affermato che i futuri confini dovranno essere basati su quelli del 1967, ma non ha affermato che dovranno essere quelli del 1967. In tal modo, egli ha probabilmente fatto intendere di essere fortemente interessato a una soluzione a due Stati, ma senza ignorare le differenti condizioni esistenti ora rispetto a quaranta anni fa. Non sorprende dunque che tale dichiarazione abbia incontrato le critiche sia dei nazionalisti israeliani che si oppongono alla soluzione a due stati – o comunque ad abbandonare il controllo di vaste parti della West Bank – sia di parte dei Palestinesi più oltranzisti che hanno comunque richiesto il ritorno ai confini del 1967.

 

ESIGENZE – Da parte israeliana si è rimarcato da più parti la debolezza strategica intrinseca dei vecchi confini, che pur essendo reale rispecchia una visione strategica ora tendenzialmente superata. Israele è una striscia di terra lunga e sottile dove si incunea la West Bank, ovvero il territorio che rimase sotto controllo della Giordania dopo l’Indipendenza di Israele e successivamente visto come la base per il futuro stato Palestinese. Fino agli anni ’60 questa situazione geografica comportava la vicinanza delle città e delle regioni produttive e maggiormente abitate d’Israele al nemico (Egitto, Siria e parzialmente Giordania) e alle sue forze armate, in particolare artiglieria e carri armati, portando dunque Israele a definire una dottrina strategica basata sul portare per prima la guerra nel territorio del nemico in caso di crisi.

 

Dopo il 1967 Israele ha potuto godere di “zone cuscinetto” (il Sinai, il Golan, la West Bank) che hanno allontanato la minaccia avversaria dalle proprie aree vitali. Proprio la guerra del 1973 ha mostrato l’importanza di tale profondità strategica (nel senso di spazio geografico profondo nel quale poter ripiegare senza mettere a repentaglio la propria esistenza) permettendo di fermare l’avanzata Egiziana nel Sinai e quella Siriana nel Golan. La restituzione del Sinai all’Egitto ha del resto rispettato tale esigenza: la demilitarizzazione della penisola infatti consente a Israele di avere comunque un considerevole cuscinetto che nel caso permette alle IDF di reagire ad eventuali ostilità prima che si arrivi in territorio Israeliano.

 

Per questo motivo gran parte della “vecchia guardia” nazionalista vede di cattivo occhio un’eventuale cessione dei territori occupati nella Guerra dei 6 Giorni: ai loro occhi equivarrebbe al ritorno a una situazione di grande vulnerabilità. Eppure le situazioni strategiche e tattiche sono variate notevolmente.

 

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SITUAZIONE ATTUALE – L’impiego di razzi e missili a gittata sempre maggiore rende meno rilevante la posizione esatta dei confini; in particolare l’andamento dello sviluppo degli armamenti potrebbe arrivare ad annullare l’importanza della distanza. Ashkelon e Haifa sono già entro il raggio d’azione di missili provenienti da Gaza o Libano, e si prevede Tel Aviv (il punto più interno) possa diventare un bersaglio realistico entro pochi anni già con i confini attuali. L’altro elemento di rischio, ovvero l’infiltrazione di cellule terroristiche, è di per se stesso non influenzato dalla posizione dei confini (lo è invece dalla loro sorveglianza, che però è un altro discorso).

 

I VERI PROBLEMI – Non è dunque l’aspetto strategico quello determinante per la questione dei confini, mentre lo sono altri due elementi:

 

1) la possibilità per Israele di operare nella West Bank a propria discrezione per dare la caccia a miliziani ostili; per quanto si stia progressivamente apprezzando l’operato delle forze di sicurezza palestinesi, con le quali una collaborazione è possibile, gli Israeliani temono che una riduzione operativa comporti maggiore attività terroristica.

 

2) la questione delle colonie. Non appare realistico un ritorno ai confini del 1967 tal quali proprio per l’esistenza di centri abitati anche di rilevante estensione. L’eliminazione di tante piccole colonie illegali da poche decine o centinaia di abitanti può anche essere considerato fattibile, ma alcune sono diventate vere e proprie cittadine anche da 50-80.000 abitanti e non è pensabile lo spostamento di forza di tali masse di persone, con il rischio di causare violenze – se non una vera e propria guerra civile – ancora più grandi, elemento spesso non considerato dai promotori di una loro eliminazione tout court. Del resto entrambe le parti devono mostrare una facciata dura per non deludere la propria opinione interna, ma per entrambe è sempre stata chiara la necessità di un accordo che veda la modifica dei confini del ’67 per adeguarsi almeno parzialmente alla modificata situazione demografica, con la proposta di un land swap, uno scambio, come possibile soluzione. Il fatto che i movimenti di coloni e ultraortodossi spingano per una maggiore immigrazione nella West Bank così da spostare ulteriormente la bilancia demografica rende importante proseguire i negoziati prima possibile, ma allo stesso tempo, anche da parte palestinese, l’attaccamento ai confini del 1967 senza modifiche appare una strategia irrealistica.

 

GEOSTRATEGIA – Dal punto di vista geostrategico invece per Israele la necessità di sicurezza non si basa su un particolare tracciato di confini ma sulla definizione di una strategia globale – militare, politica e diplomatica – che riconosca la differenza della situazione attuale da quella passata, e operi senza congelarsi su posizioni preesistenti superate dagli eventi. Nonostante i successi del muro di separazione nel ridurre gli attentati, Israele non può concedersi il lusso di trasformarsi semplicemente in uno stato-fortezza, perché la storia ha dimostrato (limes romano fortificato, Grande Muraglia cinese) che tale strategia da sola non è vincente nel lungo periodo se si ignorano le realtà all’esterno. In questo deve ritrovare la capacità di adattamento dei suoi primi decenni.

 

Presentazione e piano delle pubblicazioni

occhiello speciale

Presentazione e Indice dello Speciale

Nei primi anni novanta, la distensione internazionale seguita alla fine della Guerra fredda e dell’ordine mondiale bipolare, all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, ha favorito l’affermazione di nuovi poli economici ed industriali.

Lo scacchiere geopolitico del sud-est asiatico, da teatro di confronto ostile dei blocchi, sovietico e atlantico, è divenuto il nucleo focale degli interessi strategici della nuova potenza economica mondiale, la Cina.

È in Asia sud-orientale, che la Cina considera da sempre una propria zona di influenza, che si gioca la competizione con i Paesi più forti della regione, Giappone e India.

È a partire dall’Asia sud-orientale che la Cina consolida il suo progetto di ascesa pacifica e la sua strategia di sviluppo economico, ed è in questa regione che la Cina esercita il proprio soft power, facendo leva sullo storico retroterra culturale, con l’ambizione di riconquistare il suo tradizionale ruolo di tutore degli equilibri e della sicurezza regionale.

Il Caffè Geopolitico si propone di approfondire l’analisi dell’espansione dell’influenza cinese nei confronti dei suoi “vicini minori” facendo emergere gli interessi strategici, gli orientamenti geopolitici, geoeconomici e geoenergetici che condizionano le dinamiche politiche della regione.

Attraverso articoli e interviste esamineremo il progetto strategico cinese, le relazioni con i Paesi vicini e con le organizzazioni regionali.

Un appuntamento settimanale con la geopolitica nell’Asia sud-orientale.

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cina indice

Speciale "La Cina e i suoi vicini" Indice degli articoli

I temi

Il Mar Cinese Meridionale: un focolaio di rivalità

  •  La disputa sino-filippina sulle isole Spratly

  •  La rivalità sino-giapponese nel Mar cinese meridionale e l’interesse nazionale statunitense

  • Intervista a Nelson Rand: le dispute tra Thailandia e Cambogia e le aspettative cinesi
  • Il drago cinese affila le zanne (di Lorenzo Nannetti)
  • 2011: Make or break – Intervista a Carlyle A. Thayer (parte I e parte II)

Le relazioni bilaterali

  • La stretegia del filo di perle

  • La charm offensive della Cina in Asia Sud-Orientale – Intervista a Johannes D. Schmidt

  •  Uniti per combattere il separatismo (parte I e parte II)
  • Le relazioni Cina-Cambogia: fratellanza storica… e strategica

  • Myanmar: la 24esima provincia della Cina? – Intervista a Tony Cliff

  • Alla conquista del Laos

  • Cina-Vietnam: il titano e il nano

La diplomazia multilaterale

  • Cina e ASEAN. Un buon vicino di casa

  • Lo sguardo di Pechino verso sud – Intervista a Srinkath Kondapalli

Influenza culturale e la migrazione cinese

  •  Le geopolitiche della migrazione – Intervista a Pàl Niyri

  • Il soft power del Dragone nell'Asia sud-orientale. Dimmi come parli e ti dirò chi sei: riflessioni sull'intervista a Frank Renèe

Speciale a cura di Maria Dolores Cabras

Maria Dolores è laureata in Scienze Politiche e specializzata in Relazioni Internazionali presso la Cesare Alfieri di Firenze.

E’ un’appassionata asiatista, studiosa di geopolitica e analista delle relazioni internazionali.

L’area specialistica di studio è la Cina contemporanea. Collabora con diverse riviste di geopolitica e relazioni internazionali.

I contenuti sono rilasciati secondo i consueti termini previsti dalla nostra Licenza Creative Commons Per maggiori informazioni: redazione @ ilcaffegeopolitico.net

Esami di maturità

Si è parlato molto in questo periodo, caratterizzato da molteplici disordini interni nei Paesi arabi, di un possibile modello turco come futura base per una rinascita democratica, supportata dall’Occidente. La Turchia rappresenta un modello molto vicino agli standard occidentali ed ha sviluppato negli ultimi anni, guidati dal Partito Giustizia e Sviluppo (AKP), una forte crescita economica soprattutto con gli attori regionali. Il 12 giugno, la Turchia torna alle urne: facciamo insieme il punto della situazione

UN RUOLO SEMPRE PIU' RILEVANTE – La Turchia dal 2002 ha avuto una crescita impressionante in molti settori dell’economia. I fattori che ne hanno determinato questo sviluppo sono principalmente due: la rinnovata politica di liberalizzazioni che ha permesso a molte compagnie private di entrare in alcuni rilevanti segmenti del mercato turco, come il settore energetico e delle infrastrutture; una nuova strategia volta al coinvolgimento di tutti i Paesi direttamente coinvolti con la politica turca (Siria, Iraq, Giordania, Iran, Armenia) con il fine di realizzare una macro-area di libero scambio, coadiuvata da una politica di abolizione dei visti. Proprio quest’ultimo fattore ha determinato nel corso degli ultimi anni una crescita del ruolo regionale della Turchia, generalmente considerata in passato come succube della politica europea e americana.

MEDIATORI – Con l’avvento dell’AKP, il Paese ha cambiato progressivamente i propri orizzonti strategici, puntando maggiormente a una collaborazione multilaterale, svincolandosi da quella politica “calata dall’alto” e dettata principalmente dagli storici alleati. La politica dell’AKP perciò ha dato nuovo vigore al ruolo della Turchia, considerando come interpreti al meglio quel ruolo d’interlocutore privilegiato tra Occidente e gli attori del mondo arabo. Le recenti crisi in Libia e Siria hanno fornito un’ulteriore prova di questo nuovo ruolo di mediatore; nel caso siriano l’influenza turca è determinata dallo stretto rapporto che lega i due governi, sia sul piano politico sia su quello economico ma anche per quanto riguarda il contrasto al movimento curdo del PKK.

L'OPPOSIZIONE CRESCE – Le previsioni elettorali che si susseguono ormai da circa due mesi in Turchia confermano la vittoria del partito dell’AKP, attualmente al governo (nella foto sotto il premier Erdogan), con una percentuale che varia dal 45 al 50 per cento, mentre il diretto avversario, rappresentato dal CHP, dovrebbe attestarsi intorno al 28-30 per cento. Questi dati evidenziano una forte crescita in termini di voti per il CHP, che nelle elezioni del 2007 conquistò appena il 20 per cento degli elettori turchi: questo successo, seppur limitato, indica come si stia creando un fronte nazionale di opposizione al governo dell’AKP, appunto rappresentato dal CHP guidato da Kemal Kılıçdaroğlu. Inoltre, le ultime previsioni elettorali mostrano una caduta, in termini di consensi, del partito nazionalista MHP: dopo il recente scandalo a luci rosse che ha coinvolto alcuni alti dirigenti del partito, le previsioni indicano un calo netto delle preferenze, il che potrebbe impedire il superamento della soglia del 10 per cento, necessaria per l’accesso in Parlamento.

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LE PROBLEMATICHE DA AFFRONTARE – La questione più rilevante, anche in campagna elettorale, riguarda gli sviluppi verso una piena democrazia nel Paese: dopo il recente comunicato con cui l’UE si mostra preoccupata per la libertà di stampa e per la censura arbitraria di Internet, il premier Erdogan ha lanciato un ennesimo attacco contro i social network, accusandoli di fomentare una campagna contro il suo partito durante la campagna elettorale. Questo però non rappresenta l’unico pericolo per la democrazia. Come noto, la Turchia vive da anni una guerra silenziosa combattuta contro il PKK, gruppo armato curdo di stanza sul confine turco-iracheno. Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio di sicurezza turco (MGK), il rischio di un’escalation delle violenze durante la tornata elettorale è molto alto, a causa della rinnovata attività terroristica del gruppo curdo, che nei giorni scorsi ha lanciato diversi attacchi contro la polizia, soprattutto nelle provincie di Bingol, Sirnak e Hakkari.

MODELLO? CALMA… – La strada della Turchia verso un pieno riconoscimento internazionale perciò è condizionata da vari fattori interni ed è impreciso identificarla come modello di democrazia per i Paesi arabi, appunto per le sue croniche carenze in termini di democrazia e diritti civili. Huge Pope, in un recente report per l’organizzazione “Crisis Group”, sostiene come la Turchia non possa essere un modello per gli altri Paesi della regione, poiché ha avuto un percorso piuttosto moderato, non è stata coinvolta in guerre regionali, ed ha sviluppato un’economia diversificata, rispetto a rentier states quali Iraq o Iran. Inoltre, il ruolo dell’UE è stato di fondamentale importanza per incentivare alcune riforme sostanziali nell’ordinamento turco, culminate con l’ultimo referendum costituzionale nel settembre scorso. Di certo, se la Turchia vorrà accrescere il proprio ruolo, dovrà necessariamente far fronte alle diverse realtà che compongono il Paese: nazionalisti, minoranze etniche e religiose, integralismo islamico sono solo alcuni degli aspetti che ancora rendono il Paese un gigante dai piedi di argilla.

Luca Bellusci [email protected]

Per un futuro europeo

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Al di là della portata storica dell'evento, l'arresto di Ratko Mladic può davvero aprire le porte dell'Unione Europea alla Serbia? Vediamo assieme quanto questo evento possa significare una svolta per la vita del Paese. I grandi d'Europa non sembrano ancora pienamente concordi, eppure l'adesione di Belgrado all'Ue davvero potrebbe chiudere ferite profonde del passato e rappresentare una pagina nuova per la Serbia, che sembra finalmente pronta a guardare al futuro

MOLTO PIU' CHE UN ARRESTO – La cattura di Ratko Mladic era un evento atteso da tempo. Sedici anni di caccia all’uomo internazionale da quando il Tribunale Penale Internazionale dell’ex Jugoslavia dell’Aja aveva spiccato un mandato di cattura internazionale. Sedici anni di attesa dei parenti delle vittime delle atrocità compiute dai soldati dell’esercito serbo-bosniaco e paramilitari serbi. Una lunga attesa anche per i serbi che guardano con fiducia all’ingresso della nazione nell’Unione Europea. La cattura dell’ex generale era infatti l’ultimo ostacolo formale all’avvio del processo di ingresso di Belgrado nella Comunità Europea.

LA SERBIA CHIAMA, L'UE RISPONDE – Nei messaggi di soddisfazione espressi dai leader europei si fa spesso riferimento alla possibilità che il tanto atteso evento apra le porte dell’Europa a Belgrado. Si passa dai toni entusiastici di Frattini che spinge per l’avvio del procedimento d’ingresso entro l’anno, al più moderato Sarkozy che parla di un “passo avanti verso l’integrazione”, alla Merkel che parla genericamente di “buone basi per un riconciliazione e per un futuro europeo della regione”. La cancelliera non ha mancato di far riferimento all’attuale latitanza di un altro imputato presso la corte internazionale: Goran Hadzic, ex leader sei serbo-croati della Krajina.

La diversa sfumatura dei commenti riflette il grado di vicinanza delle cancellerie europee a Belgrado: l’Italia negli ultimi anni ha agito come uno dei principali “sponsor” alla candidatura della Serbia, in funzione anche delle importanti relazioni economiche stabilite tra i due paesi, mentre da sempre Berlino è particolarmente critica verso Belgrado e più vicina a Zagabria.

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QUALCOSA E' CAMBIATO – Il presidente serbo Tadic, che molto si è speso per la causa europeista, non ha tardato a ha richiedere all’Europa di “accogliere il paese nell’Unione”. Sotto la guida dell’attuale presidente, la Serbia ha fatto numerosi passi di avvicinamento verso l'Europa e dato una svolta decisa rispetto alla politica radicale e nazionalista degli ultimi decenni. Il politico nato a Sarajevo ha compiuto importanti gesti di distensione, come recarsi a rendere omaggio alle vittime dei terribili massacri di cui si sono resi responsabili militari e paramilitari serbi, in città quali Srebrenica e Vukovar. Con Tadic, la giustizia serba ha consegnato all'Aja, dopo anni di latitanza, anche Radovan Karadzic. In una nazione come la Serbia, in cui il nazionalismo è ancora forte, questi gesti testimoniano un indiscutibile coraggio politico. Sarebbe a questo punto miope da parte dei leader europei non riconoscere questi sforzi.

ARRESTO A OROLOGERIA? – Rimangono ancora molti punti oscuri intorno al caso Mladic: chi ha aiutato il militare in questi anni di latitanza? È per lo meno singolare, inoltre, che il ricercato sia stato scoperto in una cittadina a 80 chilometri di Belgrado, dopo che, per quanto conosciamo, non ha mai abbandonato il suolo serbo, proprio mentre il ministro degli esteri dell’Unione Catherine Ashton è in visita ufficiale nel Paese. Ma al di là di questi pur importanti interrogativi, è politicamente importante che l’Unione dia atto a Belgrado di aver voltato pagina rispetto ai tristi anni di Milosevic, della guerra, delle stragi e della pulizia etnica.

PASSATO (MOLTO) PROSSIMO – Questa nazione deve uscire da un passato recente, in cui è stata trattata al pari di uno stato-canaglia, governato da una cricca di criminali, inquinato da un nazionalismo esasperato. La storia insegna come non venendo incontro a Belgrado, vi è un rischio concreto di consegnare l’opinione pubblica nelle mani dei populisti che agitano lo spettro del complotto internazionale, e che vedono nell’isolamento internazionale un motivo di vanto. In tutti i Balcani gli spettri degli orribili massacri di ieri pesano ancora sul presente (basti pensare al fragile equilibrio della Bosnia, divisa tra federazione croato-bosgnacca e repubblica serbo-bosniaca). Senza rinunciare a ricercare una giustizia per il passato, bisogna dare una possibilità alle nuove generazioni di costruirsi un futuro europeo.

Jacopo Marazia [email protected]

La missione fantasma

L’attentato contro il convoglio italiano della Missione UNIFIL2 vicino a Sidone è stato una sorpresa perché avvenuto in un teatro sostanzialmente ritenuto “tranquillo” dal pubblico italiano. Infatti gli eventi in Afghanistan, Pakistan, Libia, Siria e Israele tendono a catalizzare l’attenzione nostrana molto più di quanto lo faccia il Libano

 

TEATRO DIMENTICATO – Ci si ricorda della Missione UNIFIL2 solo in caso di incidenti come questo. Eppure la situazione in zona è tutt’altro che semplice. Ricordiamo che l’intervento ONU è nato in autunno del 2006 per fermare gli scontri della Seconda Guerra del Libano tra Israele ed Hezbollah. Le regole d’ingaggio vennero create apposta per tutelare i Caschi Blu in un contesto molto difficile e contemporaneamente proteggere la popolazione evitando si ripetessero casi come quello di Srebrenitza in Croazia.

 

LE ORIGINI – La missione aveva l’intento di tutelare entrambe le parti: da un lato impedire a Israele di continuare il conflitto che era sfociato in un’invasione del Paese dei Cedri e tutelare così il popolo libanese. Dall’altro favorire il disarmo di Hezbollah per tutelare il popolo israeliano. Purtroppo già nel 2006 iniziarono a essere proposti molti dubbi sulla reale efficacia della missione. Innanzi tutto le regole d’ingaggio rimanevano confuse: autorizzavano l’uso della forza per proteggere i civili, anche in via preventiva, ma rimaneva difficile individuare quanto davvero si potesse considerare che i civili fossero sotto pericolo diretto (deve essere sparato un missile? O basta puntarlo?), col rischio quindi di entrare in conflitto con una delle due parti che solo avesse mostrato atteggiamenti minacciosi.

 

I DUBBI DEI CASCHI BLU – Inoltre il disarmo di Hezbollah non poteva essere eseguito dalle truppe ONU, ma solo dall’esercito Libanese, che però era considerato troppo compromesso e inadeguato come capacità per tale compito. Del resto alle truppe ONU poteva (e può) essere vietata l’ispezione a villaggi e zone se Hezbollah così richiede. Cosa significa? Alcuni anni fa parlando con degli assistenti del Generale Arena (allora al comando della Brigata Aeromobile Friuli, appena tornata dal Libano) mi venne detto senza mezzi termini che spesso si doveva “chiudere gli occhi” e far finta di non vedere (uno di loro aggiunse: “come in Somalia”), che i miliziani provvedevano a spostare carichi sospetti e armamenti mentre i soldati ONU aspettavano fuori dai villaggi, e solo dopo che tutto era stato ripulito veniva concesso l’ingresso per l’ispezione… che a quel punto ovviamente non rilevava niente.

 

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UTILITA’ – Non sorprende quindi che Israele abbia sempre mal visto la missione UNIFIL poiché aveva impedito di chiudere i conti con Hezbollah. Per quanto infatti il conflitto fosse iniziato male per Tsahal, nell’ultima settimana l’influsso di un’enorme quantità di truppe aveva ribaltato le sorti e, a giudicare dalle intercettazioni radio, portato i miliziani vicini al collasso. Dall’altra parte Hezbollah ha del resto sempre accusato velatamente la missione ONU di essere maggiormente dalla parte di Israele. Scambiando qualche opinione con il Prof. Efraim Inbar del Centro Studi Strategici BESA dell’Università di Bar-Ilan, un nazionalista, la visione della missione UNIFIL2 è una di totale inutilità, poiché secondo i rapporti di intelligence non ha disarmato Hezbollah, né ha fermato il loro rifornimento di armi; allo stesso modo, senza mezzi termini, egli ha affermato la presenza dei Caschi Blu non avrebbe impedito una eventuale risposta armata di Israele se si fosse ripresentato un conflitto.

 

Hezbollah del resto nelle sue dichiarazioni anti-Israele non ha mai citato la presenza ONU come fattore limitante e anzi recenti accordi – e ancora di più il nuovo governo filo-sciita – di fatto hanno legittimato la natura armata del movimento, eliminando quindi una delle funzioni principali della missione stessa.

 

CHI HA COLPITO? – La domanda ora è: se tutti ci considerano così inutili e così innocui, chi ha avuto interesse ad attaccarci? Probabilmente non Hezbollah, che ha tutto da guadagnare da una presenza ONU che comunque funge da utile schermo senza limitare davvero in alcun modo le proprie operazioni. Né Israele, come già qualcuno ipotizza con la solita teoria del complotto, che ha sempre avuto una forte cooperazione con UNIFIL2 e non ha bisogno di “trucchi” per avere il supporto occidentale nei confronti di Hezbollah.

 

L’attentato è avvenuto del resto in una zona che non è sotto il controllo sciita, pertanto risulta più probabile un’azione di uno dei gruppi salafiti che si ispirano ad al-Qaeda. Piccoli, sfuggenti e spesso poco coordinati tra loro, possono comunque colpire isolatamente e senza preavviso, cosa che li rende comunque pericolosi. Nascono principalmente nei campi profughi palestinesi, dove la mancanza di prospettive e lavoro favorisce il reclutamento e lo sviluppo delle ideologie estremiste. Proprio nel 2010 il gruppo Jund al Sham (originario del campo di Ayn al Hilwe vicino a Sidone) si è scontrato contro i miliziani legati a Fatah che tengono il controllo dei campi, e prima ancora nel 2007 si ricordano gli scontri a Nahr el Bared tra estremisti ed esercito libanese.

 

Lo scopo di questi movimenti appare continuare la lotta che ai loro occhi i movimenti maggiori e più conosciuti sembrano avere abbandonato per la via politica, oltre alla necessità di guadagnare visibilità e reclute. Non sono ancora capaci di azioni intense e continue come in altri paesi, ma sono comunque capaci di riprovarci.

 

In mezzo ci sono i Caschi Blu, più vulnerabili perché non si aspettano una conflittualità tipo Iraq o Afghanistan. Mentre l’utilità della missione diventa ogni giorno più evanescente, rimane la necessità di maggiori attenzioni e misure di sicurezza.

 

La grande proletaria si è mossa. Male

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L’espansionismo coloniale italiano abbraccia un periodo di quasi ottant’anni, dal 1869 al 1945, e coinvolge i territori africani di Eritrea, Somalia Italiana, Libia ed Etiopia Italiana e quelli europei del Dodecaneso e dell’Albania. Il giudizio dei posteri, sempre molto severo, lo valuta come un’esperienza fallimentare, ma rimane importante capire cosa spinse un’Italia appena unificata ad estendere il proprio controllo al di là dei nuovi confini

 

L’ITALIA SI AFFACCIA ALL’EUROPA – All’indomani del compimento dell’unificazione della nazione con la presa di Roma nel 1870, l’Italia si trovò inevitabilmente a confrontarsi con le altre grandi potenze europee che la circondavano, quali Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, oltre che ad affrontare problemi interni di grande importanza. Infatti, la nuova Italia, quale somma di una moltitudine di realtà differenti e, in alcuni casi, a lungo nemiche, era priva di un sentimento nazionale e paralizzata da un grande divario economico tra Nord e Sud. Quindi, se da un lato l’espansionismo coloniale sembrava la soluzione a tutti i problemi, portando con sé prestigio e nuove opportunità economiche, dall’altro rappresentava un notevole rischio per un Paese così giovane e ancora pieno di debolezze interne.

 

I PRIMI PASSI, L’ERITREA – La questione, comunque, si ripropose con forza nel 1869 con l’apertura del canale di Suez, che, unendo Mar Rosso ed Oceano Indiano, evitava alle imbarcazioni europee la circumnavigazione dell’Africa. L’esperienza coloniale italiana iniziò proprio in questa circostanza, quando la società Rubattino affittò la baia di Assab che, primo porto per le navi italiane nel Mar Rosso, costituì il punto di partenza verso la completa occupazione dell’Eritrea. L’impatto sull’opinione pubblica fu enorme. Da una parte, la penetrazione in Eritrea fu accolta con grande entusiasmo dai sostenitori della propaganda, secondo la quale senza colonie l’Italia sarebbe stata inferiore alle altre grandi potenze europee, e fu celebrata dalla classe dirigente che si identificava in Crispi; dall’altra, la corrente mazziniana metteva in luce la relativa povertà di risorse economiche dello Stato africano.

 

LA POLITICA DELLE MANI NETTE – Fu proprio quest’ultima visione a emergere nel 1878 durante il Congresso di Berlino (immagine sotto) il cui fine era quello di dare un nuovo assetto agli stati balcanici e di risolvere così l’annosa questione d’oriente, anticipando l’imminente crollo dell’Impero Ottomano. Le potenze europee, infatti, stabilirono le zone coloniali d’influenza e ratificarono le occupazioni militari nel mondo. Il Presidente italiano Cairoli, garibaldino, non chiese nulla per l’Italia, attuando una strategia che successivamente definì “politica delle mani nette”, secondo la quale l’Italia non accettava colonie con cognizione di causa, rifiutando di sporcarsi le mani in occupazioni che troppo spesso sfociavano nel sangue. L’opinione pubblica, da anni immersa nella propaganda del “fardello dell’uomo bianco” e convinta che la grandezza di una nazione si misurasse anche dall’esportazione delle proprie istituzioni al di fuori dell’Europa, esplose.

 

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L’UMILIAZIONE DI ADUA – Un’ulteriore umiliazione seguì nel 1881 quando i Francesi occuparono la Tunisia, considerata per vicinanza geografica e culturale un diritto italiano. Per calmare l’opinione pubblica si riprese l’espansione coloniale, puntando alla Somalia, protettorato italiano dal 1889 e poi colonia dal 1905. La cosiddetta Somalia italiana era come un guscio tra Somalia inglese e francese, ma fu impiegata come base per la penetrazione verso l’Etiopia. Nel 1895 l’esercito italiano attaccò l’Etiopia soltanto sei giorni prima che l’imperatore Menelik sciogliesse come di consuetudine l’esercito per dare priorità ai lavori nei campi. L’attacco italiano terminò il primo marzo 1896 con la scottante e umiliante sconfitta di Adua.

 

LIBIA, SCATOLONE DI SABBIA – Per qualche tempo, si arrestarono le ambizioni coloniali italiane, salvo poi riprendersi nei primi del Novecento verso la Libia. Giolitti, che al momento si trovava a capo dell’Italia, era contrario all’invasione dello stato libico, che considerava ”uno scatolone di sabbia”, tuttavia i giornali lo descrivevano come un eden, gli intellettuali lo consideravano come una fonte inesauribile di occupazione ed opportunità economiche. Ancora una volta fu l’opinione pubblica a guidare la discesa italiana in Africa. Persino Pascoli scrisse un articolo, all’indomani dell’invio delle truppe, intitolato “La grande proletaria si è mossa”. La guerra che ne seguì, tra il 1911 e il 1912, vide l’esercito italiano sconfiggere l’Impero Ottomano, ormai considerato “il Grande Malato d’Europa”, e successivamente scontrarsi ferocemente con le tribù locali.

 

In generale però, l’Italia era rimasta fortemente indietro nella corsa coloniale rispetto alle altre nazioni, fatto che nella prima metà del XX secolo la poneva in svantaggio sia dal punto di vista strategico globale sia, soprattutto, da quello economico, non potendo contare su nuovi mercati o fonti di materie prime come gran parte degli altri paesi europei. Rimanevano solo le spese sopportate e la beffa, nel secondo dopoguerra, di scoprire non essersi nemmeno mai accorti in tempo della grande ricchezza di petrolio nascosto sotto le sabbie libiche.

 

Gloria Tononi