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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Aspettare (invano?) il cambiamento

Caffè Nero – Ecco il nostro consueto appuntamento che vi propone le notizie più importanti in arrivo dall'Africa. Purtroppo la parola “violenza” sembra essere ancora all'ordine del giorno: sono molti gli Stati dove il rischio di una guerra civile è molto alto. Dalla Costa d'Avorio al Sudan, passando per la Somalia, l'instabilità politica è una costante che sembra non abbandonare mai il martoriato continente africano

COSTA D'AVORIO – Alassane Ouattara alla fine è riuscito ad insediarsi come nuovo Presidente, ma deve rispondere alle sempre più pressanti richieste sia della Corte penale Internazionale che del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di far luce sulle violenze perpetrate durante e dopo le elezioni. Ancora è alto il numero degli sfollati e le forze di Ouattara continuano a commettere abusi e violazioni.

SUDAN – La pace sembra sempre  più lontana in Sudan,nonostante proseguano negoziati e moniti internazionali. Piccoli e grandi focolai di violenza si estendono su tutto il territorio In Darfur aumenta l'ondata di violenza soprattutto contro i civili. Nella Juba che aspetta la proclamazione della definitiva indipendenza il prossimo 9 luglio, sono forti i contrasti negli stati dell'Upper Nile e di Unity dove si verificano omicidi e disordini. Intanto si sta decidendo della sorte della regione petrolifera di Abiyei ancora occupata dall'esercito di Omar al Bashir. I leader del Sudan e sud Sudan si sono incontrati ad Addis Abeba per giungere ad una soluzione e per ottenere il ritiro completo dei militari dall'area,ormai completamente sfollata. Ancora una situazione allarmante  in Kordofan dove gli scontri tra i soldati di Khartoum e quelli di Juba stanno causando molti morti, al punto da parlare di genocidio e pulizia etnica. E' un momento in cui il secolare potere sudanese deve fare i conti con i cambiamenti geopolitici imminenti e l'ipotesi terribilmente vicina di una nuova guerra civile.

KENYA – Se si legge della pena di morte, si pensa ad un reato grave e non certo alla soluzione per eliminare gli omosessuali. In Kenya però tale richiesta, avanzata dagli esponenti musulmani, sta andando avanti pubblicizzata come unica e giusta punizione per i gay che con il loro orientamento sessuale infrangono la legge islamica.

NIGERIA – Sono aumentati in questi giorni attacchi terroristici da parte di sette islamiche e per alcuni ultimi attentati sono stati accusati gli adepti della setta di Boko Haram. Le violenze si stanno indirizzando non solo ad istituzioni locali, ma anche verso quei leader islamici considerati poco propensi all’uso massiccio della violenza perpetrato dalla setta.

SOMALIA – Il 9 Giugno scorso a Kampala, capitale dell’Uganda, si è raggiunto un accordo che dovrebbe rimarginare una vecchia ferita tra le due massime istituzioni a Mogadiscio, e cioè tra il presidente della Repubblica e quello del parlamento. In base a tale accordo slitta di un anno la data delle prossime elezioni presidenziali e del presidente del Parlamento, allungando cosi di ulteriori 365 giorni l'attuale mandato di governo. Si voterà nell'Agosto del 2012. Quello che bisogna analizzare è la criticità della politica somala con le sue lacune e le sue drammaticità in una Mogadiscio dove si continua  a combattere. Non deve mancare di attenzione anche  la forza che hanno assunto Uganda ed Etiopia in questi anni, incidendo addirittura nelle valutazioni della comunità internazionale.

BURKINA FASO – Blaise Campaorè, confermato Presidente, si gode la sua vittoria e si è anche  proclamato ministro della difesa, ottenendo anche l’appoggio della popolazione. Ma da quando è stato eletto si è già trovato dinanzi a molte questioni da risolvere e in questi giorni ha fatto ricorso, per la prima volta, all'uso della forza per fermare gli ammutinamenti di alcuni militari, che dilagano nel paese.

ZIMBABWE – Robert Mugabe dovrà cedere la poltrona, ma l'instabile vita politica del paese è sempre argomento all'ordine del giorno. Ci sono le visibili opposizioni tra il partito di Mugabe e quello del premier Tsvangirai, ma ciò non deve distogliere l'attenzione dal fronte interno al partito di stato dove gli uomini di partito stanno lavorando per far si che il successore sia il più vicino alla loro corrente. Le prossime elezioni dovrebbero avvenire l'estate del 2012, ma già iniziano a trapelare tensioni e brogli in un clima per nulla disteso e in continua agitazione.

Adele Fuccio

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L’Argentina non è più in vendita?

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In Argentina il Congreso si appresta a discutere un importante progetto legislativo presentato dal governo, chiamato “Ley de Tierras”, che avrebbe l’ obiettivo di regolamentare la vendita di terre a società e privati stranieri. L’ iniziativa parlamentare è volta a risolvere una volta per tutte il problema della “svendita del territorio” perpetrata negli anni dai vari governi che si sono succeduti nel paese e che ha riguardato soprattutto la Patagonia, ricca di minerali e risorse naturali e per questo appetita da diversi attori economici mondiali. Vediamo brevemente in quali mani si trovano attualmente questi magnifici territori ed in cosa si sostanzia la proposta del governo Kirchner

PATAGONIA: BELLA E SVENDUTA – Ad attirare l’ interesse degli investitori esteri è in special modo, come detto, la Patagonia: l’ estesissimo lembo di terra a sud del continente, divisa amministrativamente tra Cile e Argentina, vanta quasi 230.000 chilometri quadrati di bacini idrografici e 4.000 chilometri di ghiacci continentali e ghiacciai, che ne fanno forse la più grande riserva di acqua dolce della terra. Ma la Patagonia non è solo questo. E’ anche petrolio, gas naturale, foreste, quindi legname, e terre coltivabili o fruibili per la pastorizia.

La vendita di terre in Argentina, a parte le vicissitudini storiche delle dominazioni spagnola e inglese, fu iniziata dal governo presieduto dal discusso Carlos Menem che, a partire dagli anni ‘90, approfittando dell'assenza di una legge federale che regolasse la materia,  iniziò la cessione di quello che era considerato un “surplus di terra” e soprattutto diede il via alla nefasta tradizione, poi proseguita dai governi successivi, di abolire quasi tutte le forme di controllo statale sui progetti d’ investimento proposti, cosa che molto spesso ha prodotto notevoli conseguenze ambientali e sociali.

I “NUOVI CONQUISTADORES” – In tempi più recenti, i nuovi conquistadores delle terre della Patagonia sono attori economici di rilevanza mondiale, impegnati nelle più svariate attività economiche. Tra questi, fanno la parte del leone nomi quali Tompkins, Turner, Lewis e l’ italianissima famiglia Benetton.

Il californiano Doug Tompkins è il cofondatore della società d’ abbigliamento The North Face e Herman Warden Lay, creatore delle patatine fritte Lay’s nonché ex direttore della Pepsi-Cola. E’ considerato il più grande proprietario privato di risorse naturali e fattorie della Patagonia cilena e della regione argentina di Corrientes, tanto da meritarsi l’ appellativo di “dueño de las aguas”. Altro magnate e grande terrateniente del posto è Ted Turner, fondatore della CNN. È proprietario di un possedimento di 35.000 ettari nella provincia di Neuquén più altri 5.000 nella famosa Terra del Fuoco. Le sue proprietà danno accesso ai fiumi più incontaminati della Patagonia, tra i quali il fiume Trafúl, dove è possibile pescare le migliori trote e salmoni del mondo. Joseph Lewis, propietario della catena Hard Rock Cafè e vecchia volpe grigia della finanza, chiamato lo “zio Joe”, possiede invece i 14.000 ettari di terra confinanti col Lago Escondido, vicino la splendida città di Bariloche al confine col Cile. Il suo territorio è ricco oltre che di risorse idrogeologiche anche di legname, visto che è ricco di foreste di Alerces dai quali si ricava uno dei legni più pregiati ed antichi del mondo.

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L’ IMPERO BENETTON…MA C’E’ CHI DICE NO! – Passiamo infine ad una nostra conoscenza, i Benetton. I fratelli Carlo e Luciano controllano infatti circa 900.000 ettari di terre, primi investitori in assoluto nella regione, attraverso la società Compañia de Tierras Sur Argentino (CTSA) che ad oggi è la più importante azienda agroalimentare del paese. I Benetton hanno iniziato a comprare queste terre all’inizio degli anni ’90, per incrementare soprattutto l’ importazione di lana, materia prima fondamentale per la loro industria tessile, la rinomata United Colors of Benetton, arrivando ad avere 260.000 teste di bestiame che producono circa 1.300.000 chili di lana all’anno. Attualmente la CTSA ha quattro centri di produzione non solo di lana ma anche di carni e cereali, tre in Patagonia ed uno nella provincia di Buenos Aires. Inoltre più del 98% delle terre che possiede l’ impresa italiana si collocano nelle tre province meridionali di Santa Cruz, Rio Negro e Chubut.

Negli ultimi decenni l’ intensificarsi dello sfruttamento di queste terre ha portato quindi a scontri di carattere anche giudiziario tra questi  grandi proprietari terrieri e le popolazioni locali. Ad esempio il gruppo Benetton è da anni impegnato in una controversia legale con le famiglie Mapuche di Santa Rosa, discendenti dei popoli originari presenti in quelle regioni prima della dominazione spagnola, che lamentano di essere stati espropriati delle proprie terre ancestrali ad uso e consumo dei nuovi conquistadores. A tutt’oggi molti argentini pensano, non a torto, che la presenza dei capitali stranieri abbia creato oltre a danni paesaggistici ed ecologici anche una grave limitazione per la popolazione nell’accesso alle risorse e alle bellezze naturali della Patagonia.

LEGGE UTILE O CONTENTINO? – Anche per questo malcontento popolare nasce quindi il progetto di legge presentato dal governo della presidenta Cristina Kirchner, che probabilmente sarà approvato alla fine di questo mese, e che stabilisce alcune regole base. In primo luogo fisserebbe un limite di 1.000 ettari alla quantità di terra che può essere posseduta da uno straniero, sia esso persona fisica o giuridica, ovvero società o singolo privato. In secondo luogo porrebbe un limite nazionale, provinciale e municipale del 20% delle terre rurali che possono essere di proprietà d’ investitori stranieri. In ultima istanza la nuova norma creerebbe per la prima volta un Registro Unico Nazionale delle terre rurali, dato che al momento non si conosce quanti dei 206 milioni di ettari siano effettivamente già nella disponibilità di soggetti stranieri. Unico elemento negativo ma rilevantissimo della nuova legge sarebbe la non retroattività della stessa. Il che implica che le proprietà già acquisite in passato dai grandi imprenditori sopra citati non verranno toccate neppure in una foglia, ma la normativa si applicherà solo ad eventuali acquisizioni future da parte di terzi.

Alla fine la domanda è lecita: legge–beffa fatta dalla Kirchner per acquistare consensi in vista delle elezioni o soluzione che salverà il destino del territorio della bella Argentina?

Alfredo D'Alessandro

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Sotto la punta dell’iceberg

Uno dei paesi che più forse ha guadagnato dall’esplosione delle rivolte arabe è probabilmente l’Iran. Da centro dell’attenzione e delle preoccupazioni mondiali negli ultimi due anni, la Repubblica Islamica ha visto l’interesse dell’opinione pubblica internazionale rivolta verso altri zone, a tutto vantaggio del proseguimento dei propri progetti. Sotto una punta di tranquillità vi sono varie questioni ancora aperte.

 

RIVOLTE A TEHRAN? – L’onda delle rivolte arabe è in realtà arrivata anche in Iran, ma come abbiamo già spiegato (v. Iran = Egitto?) il regime degli Ayatollah non ne è stato mai particolarmente impegnato, mancando un largo supporto popolare alla rivolta. Anzi, il fatto che l’attenzione mondiale fosse rivolta altrove ha permesso di stringere ancora di più le maglie incarcerando i due principali leader dell’opposizione: Mir-Hossein Moussavi e Mehdi Karrubi, dei quali non si sa più nulla dalla loro cattura il 27 febbraio scorso. La rivolta verde pare ora pressoché priva di energia.

 

BOMBA O NON BOMBA? – Altrettanto oblio ha colpito la questione nucleare iraniana, quasi completamente sparita dai media nostrani. Eppure vi sono state alcune importanti novità. Abbiamo già parlato di come i documenti di Wikileaks avessero confermato le analisi degli esperti che da anni mostravano come fossero proprio gli stati arabi moderati i principali promotori di un attacco militare all’Iran in funzione anti-nucleare. Recentemente altri documenti hanno mostrato come lo stesso stato maggiore israeliano avesse giudicato non fattibile un attacco aereo in proprio, considerate le notevoli difficoltà operative coinvolte. Del resto l’ex-capo del Mossad Meir Dagan ha affermato come le ultime misure di intelligence, incluso il virus Stuxnet, hanno probabilmente rallentato il programma iraniano di vari anni.

 

Nonostante ciò il programma non è fermo e procede. Nel suo ultimo rapporto del 24 Maggio 2011 (desecretato il 6 giugno 2011), il Direttore Generale dell’AIEA riporta la continua non cooperazione di Tehran e il non adempimento delle richieste dell’agenzia. Ne risulta l’impossibilità di verificare la natura pacifica o militare del programma stesso, sul quale permangono molti dubbi. Gli Ayatollah del resto non appaiono ora particolarmente preoccupati dalle posizioni occidentali, poiché la situazione internazionale contribuisce a fornire loro una certa dose di sicurezza riguardo al futuro prossimo.

 

Con Israele che ha già dichiarato di non volere/potere attaccare da solo, le rivolte arabe che tengono bloccata l’attenzione occidentale e di molti alleati USA nella regione (Arabia Saudita, Bahrein) e il cambio di politica estera dell’Egitto che ha deciso di riaprile il dialogo con Teheran, l’Iran si trova ora a poter agire addirittura meno nascostamente di prima; dati recenti infatti mostrano come gli scienziati locali abbiano spostato parte del sistema di arricchimento dell’Uranio-235 al 20% proprio in quel sito di Fordow (presso Qom) tenuto segreto fino a pochi anni fa e sul cui scopo ancora non si è avuta risposta. Il sito diventerebbe dunque operativo e di fatto ospiterebbe quella parte di processo che più facilmente può essere convertito per scopi militari.

 

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L’EGITTO APRE – Dal punto di vista diplomatico proprio il rivolgimento in Egitto sta aprendo le maggiori possibilità a Tehran, che ha visto eliminato uno dei suoi principali avversari nella regione (Mubarak) e ha trovato appoggi per uscire dall’isolamento. La recente navigazione di alcuni sottomarini nel Mar Rosso non è di per sé militarmente rilevante, ma rimarca la nuova possibile influenza iraniana nella regione e secondo Israele potrebbe favorire un ulteriore riarmo di gruppi estremisti a Gaza e dintorni, come Hamas.

 

Questi successi vengono molto pubblicizzati nella repubblica islamica anche per allontanare l’attenzione dalla situazione interna, che oltre alla già citata repressione delle rivolte ha recentemente visto un nuovo contrasto tra la Guida Suprema Ali Khamenei e il Presidente Mahmud Ahmadinejad, quest’ultimo accusato di stare accentrando troppo potere senza il permesso del Capo dello Stato. Alcuni analisti notano come tutti i presidenti che abbiano provato a fare il passo troppo lungo si siano trovati destituiti o in disgrazia velocemente, tuttavia non si può escludere che l’evento vada a inserirsi nella lotta tra la corrente conservatrice tradizionale della Guida Suprema con quella ultraconservatrice dell’Ayatollah Mesbah-Yazdi, che di Ahamdinejad è il mentore. Sarà pertanto utile continuare ad osservare l’eventuale evolversi della situazione interna.

 

Lorenzo Nannetti

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Tripoli bel suol d’amore

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I perchè della guerra di Libia del 1911. Le difficoltà della Triplice Alleanza, la Francia che ci soffia la Tunisia da sotto il naso, in quello che sembrava una sorta di calciomercato coloniale. Le aspirazioni imperialiste: Libia terra di oasi o scatolone di sabbia? Breve viaggio dietro le quinte di un intervento militare che, sul campo, si rivelò un vero disastro. Con una considerazione da non sottovalutare: aveva ragione Gianni Brera. Su cosa? Leggete qui

 

ITALIANI BRAVA GENTE – “Un popolo di abatini“, diceva Gianni Brera dei suoi compatrioti, “incapaci di virile coerenza e fermezza, alieni alla grandezza di spirito, e per questa ragione poco inclini al Bene assoluto, così come, fortunatamente, anche al Male”. Gente non particolarmente virtuosa pertanto, ma sostanzialmente innocua. Un sillogismo che ha condotto alla coniazione del motto “Italiani, brava gente”, luogo comune tanto fortunato da divenire parola d’ordine della propaganda nazionale in tutte le epoche, e da condizionare irrimediabilmente qualsiasi tentativo di ricostruzione storica oggettiva. Un’emblematica esemplificazione dell’inconsistenza dell’immagine stereotipata dell’italiano buono – su cui certa intellettualità, anche insospettabile, dell’epoca ebbe la colpa di indulgere – , nonché della drammatica interazione tra necessità geopolitiche, spinte irredentiste, e volontà di potenza scaricata in una sconcertante forma di imperialismo di terz’ordine, è fornita dalle vicende della penisola nell’ultima fase della Triplice Alleanza, che portarono alla guerra di Libia, e al rapido sgretolarsi del trentennale trattato.

 

I DIFFICILI RAPPORTI IN SENO ALLA TRIPLICE – La nascita della Triplice Alleanza risale proprio alla frustrazione delle aspirazioni espansionistiche in Nord Africa della giovane nazione italiana, che si vide sottrarre da sotto il naso la Tunisia  dalla Francia (1881), con il tacito consenso della Germania bismarckiana. Dopo l’apertura del canale di Suez, il Mediterraneo tornava ad essere un’area di interesse commerciale. I diplomatici italiani vedevano nell’acquisizione dell’altra sponda del canale di Sicilia un passaggio fondamentale per amplificare il valore strategico della penisola e introdurla sul palcoscenico della grande politica internazionale, al contempo sottraendola all’isolamento dei primi anni post unitari. Pesò però la recisa volontà dell’Impero britannico, che, in quel punto nevralgico sulle rotte tra mediterraneo orientale e occidentale, non ammetteva una presenza egemone. La Francia ottenne così il via libera all’occupazione della Tunisia, e la Germania non fece altro che ratificare una situazione sulla quale non intendeva intervenire, deviando le richieste italiane di una alleanza in funzione antifrancese verso un trattato con l’impero austro ungarico, già legato al kaiser in virtù della Duplice Alleanza.

 

Col progressivo modificarsi degli equilibri internazionali, nel corso degli anni, mutò anche l’atteggiamento dell’Italia nei confronti dei propri alleati, in particolare dell’Austria, che tornò a ricoprire il ruolo di avversario naturale: i rinnovi del trattato (1887, 1891, 1896, 1902) sono sistematicamente segnati dalla contrapposizione diplomatica delle due compagini. Da una parte l’Italia, agitata dai furori nazionalistici in merito alla questione delle terre irredente, e motivata da aspirazioni colonialiste, con i dichiarati obiettivi della Libia e dell’Etiopia; dall’altra l’Austria, preoccupata dalle interferenze della monarchia sabauda nei Balcani (confermate dal matrimonio dell’allora erede al trono Vittorio Emanuele con Elena di Montenegro, nel 1896), nonché dal rischio che un’offensiva italiana contro l’Impero turco, cui appartenevano i vilâyet della Tripolitania e della Cirenaica, incoraggiasse nuovamente l’espansionismo russo sul Mediterraneo.

 

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OBIETTIVO LIBIA – In questo scenario di estrema tensione nei confronti dell’alleato austriaco, le aspirazioni imperialiste, frustrate qualche anno prima dalla disfatta di Adua, ripresero vigore, e si incanalarono naturalmente verso l’obiettivo libico, scatenando il più sconsiderato fanatismo verso l’impresa militare: alcuni leader dell’Associazione Nazionalista Italiana, come Enrico Corradini, arrivarono addirittura a magnificare la favolosa fertilità delle oasi di Tripoli! Si aggiungevano a questa azione di palese propaganda, le illusioni dell’opinione pubblica, che vedeva nella conquista di terre agricole uno strumento per alleviare la crescente pressione sociale, che fino ad allora aveva avuto come unico sfogo l’emigrazione di masse di diseredati verso gli Stati Uniti. A nulla valse, in tal senso, la prudenza di statisti e pensatori come Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, o dello stesso Gaetano Salvemini, che definì la Libia “un’enorme voragine di sabbia”, che avrebbe ingoiato per anni uomini e denaro.

 

Lo stesso Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, contrario per temperamento ad abbandonarsi a imprese rischiose, freddo, cinico e per nulla passionale, sorprese tutti quando decise per l’intervento. Le motivazioni razionali potevano anche non mancare: una su tutte la volontà di offrire, con l’Africa, alle dilaganti tendenze nazionalistiche un diversivo alle aspirazioni più pericolose, ovvero quelle irredentistiche e balcaniche.

 

LE DISASTROSE OPERAZIONI SUL CAMPO – Sin dal momento dello sbarco, successivo a un ultimatum risibile per la genericità e vaghezza delle lagnanze, il corpo di spedizione al comando del generale Carlo Caneva, per quanto in grado di assestarsi con relativa facilità nelle piazzeforti strategiche di Tripoli, Homs, Bengasi, Derna e Tobruq, sperimentò quanto era stato escluso dai diplomatici: a Homs, a dare manforte a 500 ottomani, c’erano addirittura 1000 arabi. Questo fatto avrebbe dovuto mettere in allarme i consiglieri militari, che invece mantennero un atteggiamento facilone e incomprensibilmente ottimistico. Errore fatale. In prossimità del villaggio di Sciara Sciat, il 23 ottobre 1911, un’offensiva congiunta turco araba, annientò il contingente italiano, provocando almeno 500 morti. Invece che rilevare gli errori strategici dello stato maggiore, l’opinione pubblica italiana gridò al tradimento della popolazione araba nei confronti dei supposti liberatori, e insigni intellettuali riproposero la consueta minestra dell’ingratitudine dei selvaggi nordafricani, e della bontà innata e mal corrisposta degli Italiani; così Filippo Tommaso Marinetti, “Abbiamo subito la sanzione fatale del nostro stupido umanitarismo coloniale”. Ebbene, l’umanitarismo coloniale non tardò a far sentire i suoi effetti sulla popolazione locale: spietate rappresaglie, impiccagioni di massa, e la deportazione alle Tremiti, a Ustica e a Lampedusa di almeno 4000 libici, tra donne, vecchi, bambini e innocenti.

 

Nonostante ciò, dopo un anno, e l’aumento del contingente italiano a 100.000 unità, pochi passi avanti erano stati compiuti nell’occupazione dell’interno della Libia, quando a Ouchy, in Svizzera, Italia e Turchia firmavano il trattato di pace. La “passeggiata militare” era costata all’Italia 3431 morti e 4200 feriti. La guerra era peraltro ben lungi dall’essere finita. Scacciati i Turchi, restava il 90 % del territorio libico da conquistare, infestato dai ribelli della resistenza senussita. Il logorante e feroce scontro che ne seguì, sotto il comando del generale D’Ameglio, si risolse nella più classica delle azioni di occupazione. A fronte della guerriglia indigena, le truppe italiane rispondevano con rappresaglie continue ed esecuzioni sommarie.

 

Tale immensa spesa di sangue però, non valse agli Italiani la vittoria. Anzi. Con la drammatica e precipitosa ritirata dal Fezzan del 1915 tramontavano nell’ignominia e nel disonore le aspirazioni coloniali del paese. Da alcune stime del Ministero delle Colonie del 1920, la ritirata segnò circa 10.000 morti. Una cifra dunque superiore a quella di un’altra epica disfatta, quella di Adua.

 

Così finiva, nel sangue e nella vergogna, il primo tentativo di occupare la Libia. Era durato quattro anni. Per raggiungere l’occupazione integrale della “quarta sponda” sarebbero occorsi altri diciassette anni e l’annientamento, in combattimento e nei campi di sterminio, di un ottavo della popolazione libica.

 

Ulisse Morelli

Particolarità siriane

Mentre la repressione del governo siriano contro la rivolta civile è giunta alla riconquista di Jisr a-Shugour con voci di nuovi spargimenti di sangue, la domanda che più viene posta è: perché in Libia si è intervenuti e in Siria no? Perché non una risoluzione ONU anche lì? Perché la comunità internazionale ha attaccato Gheddafi e non ancora Bashar al-Assad?

 

DIFFERENZE – Di solito la domanda viene posta in tono accusatorio, per mostrare i forti interessi che giravano – e girano ancora – intorno alla Libia e che non appaiono esserci per quanto riguarda la Siria. Noi stessi in articoli passati abbiamo rimarcato l’esistenza di interessi geopolitici che sicuramente si sono accoppiati a quelli umanitari per motivare l’intervento in Libia. Tuttavia è bene rendersi conto come la decisione o meno di intervenire vada sempre necessariamente sottoposta alla situazione geopolitica e strategica locale e globale. Nella scelta di agire o meno, devono sempre essere tenuti in considerazione le particolarità che ogni stato, regione, situazione locale presenta. E la Siria ha oggi caratteristiche molto diverse dalla Libia pre-intervento.

 

Innanzi tutto il paese non appare essere ancora così spaccato come in Libia. L’esercito non ha ancora mostrato rilevanti segni di defezioni tanto che i rivoltosi appaiono ancora costituiti principalmente da cittadini e piccoli gruppi di militari e poliziotti disertori. Le notizie dell’uccisione dei soldati che si rifiutano di sparare contro i civili, per quanto non confermate, mostrano comunque un regime ancora capace di ridurre l’effetto di segni di dissenso all’interno delle proprie forze di sicurezza. Questo a sua volta rende la situazione dei rivoltosi particolarmente difficile e allo stesso tempo conferma la mancanza di un vero fronte interno al quale appoggiarsi. Come affrontare la questione? Bombardando l’esercito? Eseguendo pressioni economiche?

 

ISOLAMENTO ECONOMICO – Per quanto riguarda queste ultime, Damasco vive da anni una situazione di parziale embargo economico e i suoi rapporti con l’Iran la pongono già da tempo all’indice delle diplomazie internazionali, anche se negli ultimi anni qualche spiraglio di distensione si era intravisto. Il paese non è economicamente molto esposto verso l’Occidente e per questo soffrirebbe meno un ulteriore blocco estero. Non si tratterebbe dunque di una nuova situazione, né si prevede le sanzioni possano risultare decisive a breve termine, a tutto svantaggio della sicurezza dei rivoltosi stessi che necessiterebbero di una risoluzione immediata.

 

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ESERCITO – Allo stesso tempo è di difficile pianificazione ed esecuzione anche una campagna militare. Dal punto di vista pratico l’esercito siriano è molto più numeroso e meglio armato di quello libico. Per quanto i suoi standard risultino obsoleti rispetto all’Occidente, la griglia difensiva antiaerea di Damasco e del paese in genere è particolarmente fitta (retaggio delle passate guerre arabo-israeliane) e questo comporterebbe un considerevole sforzo iniziale solo per eliminare l’aviazione e le difese antiaeree. La fase successiva di attacco alle forze armate che provvedono a sparare sui civili comporterebbe poi la sfida a un esercito nazionale che è ancora sostanzialmente coeso. Inoltre a quale risultato bisognerebbe puntare? Alla eliminazione della capacità offensiva siriana? Questo comporterebbe il suo annientamento quasi totale, ben più complicato che in Libia in quanto ottenibile solo tramite un conflitto ad alta intensità che richiederebbe ingenti forze militari la cui provenienza ora sarebbe di difficile definizione.

 

DIPLOMAZIA – Tutto questo senza prendere in considerazione le questioni diplomatiche. Innanzi tutto la Siria è incastonata in un delicato equilibrio medio-orientale ove un conflitto aperto rischia di scatenarne altri tramite i numerosi alleati che Damasco può contare nella regione, condizione inesistente per Tripoli. Inoltre nessun paese agirebbe senza un preciso mandato ONU che, dopo l’esperienza libica, verrebbe reso ancora più stringente e particolareggiato per evitare incomprensioni.  Ne deriva una probabile ulteriore lentezza – se non proprio stallo – nel definirlo. Non va infatti dimenticato come Russia e Cina, dopo l’esperienza libica, siano probabilmente meno favorevoli ad appoggiare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che possa comportare l’uso della forza, ancor più contro la Siria che è da decenni uno dei maggiori compratori delle loro forniture belliche e una delle porte dell’influenza di Mosca e Pechino nella regione grazie ad accordi bilaterali come l’usufrutto della base navale siriana di Tartus alla flotta russa. Perché in fondo non siamo solo noi Occidentali a cercare di portare avanti i nostri interessi in queste cose.

 

Lorenzo Nannetti

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Il Mar Cinese Meridionale, un focolaio di rivalità – I

Il Mar Cinese Meridionale, costellato da centinaia di isole, barriere coralline e scogli, custodisce nei suoi fondali ingenti giacimenti di idrocarburi. In quella porzione di mare, nella quale confluiscono alcuni tra i più grandi fiumi asiatici, dal Mekong al Fiume Rosso, si gioca anche la sfida strategica per il controllo degli accessi all’Oceano Indiano, delle rotte marittime verso il Golfo Persico e il Mediterraneo. Cina, Giappone, Vietnam, Filippine, Indonesia, Taiwan, Thailandia e Malaysia sono i giocatori in campo

 

LA DISPUTA SINO-FILIPPINA SULLE ISOLE SPRATLY – I cinesi le chiamano “nansha qundao”, i vietnamiti “quan dao truong sa”, per noi sono le Spratly, l’arcipelago di atolli ed isolotti che costella un frantume considerevole del Mar Cinese Meridionale, il nucleo d’attrazione degli interessi strategici regionali. La Malaysia, Taiwan, la Cina (possiede la grande isola di Hainan e sette scogli), le Filippine (controllano le Palawan e altre sette isole), il Vietnam (controlla ventisette isole), rivendicano ciascuno l’esclusiva sovranità sulla miriade di atolli e di piccole isole di dubbia appartenenza e non ancora occupati. Cina e Vietnam avanzano le loro pretese espansionistiche sull’intero arcipelago, mentre Filippine, Malaysia e Brunei reclamano il controllo solo su una parte.

Le rivendicazioni cinesi sulle Spratly ritrovano il loro presupposto nel retroterra storico e nell’atavica relazione intercorrente tra il Paese di Mezzo e le isole durante le dinastie Han e Ming, attraverso l’insediamento di pescatori. E per sostenere l’evidenza della loro remota sovranità sull’arcipelago, Pechino fa incetta di testimonianze archeologiche e storico-documentali che convaliderebbero il primato cinese della scoperta delle isole. Anche Manila vanta un diretto interesse storico sulla cinquantina di isolotti e barriere coralline che reclama come propri in quanto scoperti dall’avventuriero filippino Thomas Cloma, il quale nel 1956 fondò lo stato di Freedomland (Kalayaan) con capitale sull’isola di Patag, nel 1978 annessa alla municipalità di Palawan su iniziativa di Marcos.

La versione ufficiale cinese giustifica gli interessi sulle Spratly, e sullo spazio marittimo circostante, con la necessità di garantire alle produttive province continentali della Cina sud-occidentale, quali il Guandong e il Guanxi, un corridoio commerciale diretto all’Oceano Indiano.

 

PRESUPPOSTO GIURIDICO – La disciplina delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) e della Piattaforma continentale, regolamentata con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay (1982), ha colmato il vuoto normativo incidendo sugli equilibri geopolitici regionali nel sud-est asiatico. Allo stato costiero che attesta la nascita di una ZEE o Piattaforma continentale attraverso una dichiarazione formale, sono riconosciuti diritti esclusivi in merito all’esplorazione scientifica, all’impianto di strutture fisse o mobili, alla conservazione e allo sfruttamento economico degli idrocarburi e delle risorse minerali presenti nel fondo marino. Ecco quindi che che sullo specchio d’acqua del Mar Cinese Meridionale, attorno a quegli isolotti non ancora occupati che prima erano considerati terra nullius, si sono acutizzate le rivalità. Così, da un lato si sono moltiplicate in questi ultimi anni le dichiarazioni unilaterali di esistenza di nuove ZEE dell’uno o dell’altro stato costiero, disconosciute dagli altri stati competitori; dall’altro si sono rafforzate le relazioni bilaterali e la cooperazione tecnologica interstatale in ordine allo sfruttamento condiviso delle risorse, come tra la Malaysia e il Vietnam, tra la Malaysia e le Filippine, tra le Filippine e il Vietnam.

La Cina, che considera la disputa per le Spratly una questione di interesse strettamente nazionale quindi non negoziabile, fondamentale per la crescita del Paese e per la sua ascesa internazionale, rigetta l’approccio multilaterale al problema e consolida piuttosto i rapporti bilaterali, sostenendo le joint ventures tra imprese statali e private. La cooperazione bilaterale e le joint economic exploitation consentono così a Pechino di accrescere la propria influenza politica sugli altri paesi costieri e in via di sviluppo, fornendo loro la tecnologia e il know-how necessari allo sfruttamento delle risorse.

 

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LA MILITARIZZAZIONE DELL’AREA – Se nei primi anni ottanta furono soprattutto le Filippine e la Malaysia a trasformare scogli e isole in avamposti militari, con l’occupazione cinese di sei isolotti (1988) e del Mischief Reef (1995) è accresciuto il rischio dello scontro militare, incoraggiato dall’ammodernamento della flotta navale di Pechino e dell’incremento dell’attività nell’area. Una vera e propria minaccia per Manila, che in risposta ha avviato, a sua volta, il piano per l’ammodernamento dell’apparato e della tecnologia bellica, sostenuto dagli Stati Uniti, grazie al Visiting Forces Agreement (1998). Gli Stati Uniti, che nel 1992 avevano ritirato le proprie forze militari, hanno assicurato alle Filippine il loro ombrello di protezione militare, e diverse azioni antiterrorismo congiunte si sono già svolte nel Mar Cinese Meridionale. La garanzia per le Filippine di una difesa esterna statunitense ha orientato le relazioni bilaterali con la Cina verso la via diplomatica e ha internazionalizzato la contesa sulle Spratly, rendendola oggetto di discussione del forum dell’Associazione per le Nazioni dell’Asia Sud-Orientale. Attualmente comunque, la strategia formale perseguita da Pechino è la via della risoluzione pacifica delle controversie regionali, necessaria per evitare un potenziale intervento militare statunitense nella regione e per rinvigorire le relazioni con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico. Oggi come ieri, a fondamento del pragmatismo cinese c’è l’obiettivo irrinunciabile della crescita economica del Paese di Mezzo, per la quale si rivela indispensabile lo sfruttamento delle risorse del Mar Cinese Meridionale. La sovranità su quegli isolotti implica il controllo sulle acque, sulle risorse del fondo marino (vedi la tabella sopra per alcuni dati di massima – Fonte: US Department of Energy), sulla pesca, sulla navigazione e sulle rotte, ma anche sulla sicurezza militare dell’area.

 

Questo presupposto è chiarificatore dei termini dello scontro e della militarizzazione di alcuni scogli, occupati dalla Cina, o dell’invio da parte delle Filippine di velivoli militari nei contesi isolotti dell’arcipelago delle Spratly in risposta al blocco di una nave in missione di esplorazione petrolifera in quelle acque ad opera di due motovedette cinesi. Anche se dunque prevalgono l’approccio diplomatico e il mantenimento della stabilità, non mancano le schermaglie militari.

Nel Mar Cinese Meridionale prosegue così la “creeping invasion” come ha affermato Mercado, l’ex Segretario alla Difesa delle Filippine, quella del Dragone cinese, che la sinologa Bergére ha definito una “conquista silenziosa a danno delle Filippine, in questa Asia del sud-est che considera come una delle proprie zone di influenza tradizionali”.

 

(continua nella seconda parte)

 

Dolores Cabras

Un tè lungo la ring road

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Parte I – Si è conclusa qualche settimana fa (12-13 maggio 2011) la visita del Primo Ministro indiano in Afghanistan: la visita avviene, non a caso, in un momento cruciale nell’intricato mosaico afghano, ovvero a pochi giorni di distanza dalla morte del numero uno di Al Qaeda, Osama Bin Laden sul territorio pakistano. Oltre a toccare argomenti quali il finanziamento economico indiano all’Afghanistan, il primo ministro indiano e Hamid Karzai hanno analizzato anche l’impatto che la morte dello sceicco del terrore ha avuto e continuerà ad avere sulla regione

Parte I di II

IL TRIANGOLO PAKISTAN -INDIA- AFGHANISTAN – La visita di Manmohan Singh in Afghanistan segna un momento importante nelle relazioni tra i due paesi (di forte impatto simbolico il fatto che Singh abbia dormito nella dimora dell’ex Re afgano, prima volta che questo avviene per un ospite straniero) e ha anche importanti ripercussioni e impatti sulle future mosse del vicino Pakistan sul suolo afgano e sulle future decisioni che dovrà prendere il quarto attore in gioco ovvero gli Stati Uniti, inclini per un imminente ritiro delle truppe americane. Le relazioni tra India e Pakistan notoriamente non sono buone per più motivi e la difficoltà di dialogo tra le due parti ha portato i due paesi a utilizzare l’Afghanistan come luogo di scontro. L’India in questo momento è alla costante e assidua ricerca di un ruolo centrale e quindi di maggiore visibilità politica nell’area asiatica sia per questioni prettamente economiche, che la portano inoltre ad essere in aperta conflittualità e concorrenza con la Cina, sia dal punto di vista territoriale, ovvero alla ricerca di una stabilità dei suoi confini (Kashmir).

Le relazioni indo-pakistane crollate a picco dopo gli attentati di Mumbai del 2008, sono strettamente legate alla competizione strategica in Afghanistan. I due paesi, entrambi alleati degli Stati Uniti, sono in forte conflitto e profondo disaccordo sulla strategia di ricostruzione del nazione afgana. In questo scenario l’Afghanistan diventa quindi l’ambito oggetto del desiderio e territorio e di scontro per dichiarare la predominanza del proprio stato sul territorio afgano e nella zona dell’ Asia meridionale e per i rispettivi disegni geopolitici. Da non trascurare il fattore economico, soprattutto da parte dell’India.

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IL RUOLO PAKISTANO – Da un lato il Pakistan è alla costante ricerca di un ruolo predominate sul territorio afgano per ovvi motivi di controllo territoriale, ma gode di poca fiducia e pessima reputazione agli occhi dell’attore indiano, a causa sia del secolare conflitto per il Kashmir sia i sospetti indiani di complicità pakistana negli attentati di Mumbai del 26 novembre del 2009 che causarono 170 morti (l’India ha da poco stilato una lista di terroristi ospitati in Pakistan che sembrerebbero essere coinvolti nell’attentato) . Il ruolo pakistano nella zona è ancora tutto da definirsi anche rispetto all’attore americano: non è chiaro infatti quale sarà la strategia statunitense rispetto al Pakistan; i rapporti tra i due paesi sono in questo momento vacillanti a causa dei sospetti da parte americana di complicità dei servizi segreti pakistani con il nemico talebano; inoltre resta tutto da definire il ruolo del Pakistan e dei suoi servizi segreti nell’uccisione dello sceicco del terrore Osama Bin Laden lo scorso maggio. L’obiettivo americano di stabilizzare l’Afghanistan per impedire che diventi nuovamente covo per i jihadisti globali necessita dell’aiuto e cooperazione attiva del Pakistan che dall’altro però ha dei grossi deficit di democraticità e stabilità interna, dilagante corruzione e un apparato dei servizi segreti del tutto poco trasparente. I confini pakistani non sono di certo un luogo sicuro e non danno stabilità al vicino territorio afgano che invece necessita di un alleato e sostenitore forte sotto ogni punto di vista. Inoltre per il Pakistan poter controllare e avere un ruolo attivo nella politica interna afgana significherebbe poter prevenire e controllare qualsiasi tipo di nazionalismo afgano e pretese d’indipendenza su base etnica da parte dei nazionalisti pashtun.

SCALARE LA CLASSIFICA – Il Pakistan ha tutto l’interesse ad avere un ruolo centrale e privilegiato nella ricostruzione dell’Afghanistan e in funzione di questo cerca in tutti i modi di bloccare e allentare il legame tra Kabul e New Delhi così da limitare l’influenza indiana sul territorio afgano. Una delle mosse strategiche in questo senso è stata giocata attraverso “Afghanistan-Pakistan Transit Trade Agreement”, accordo di natura economica: in tale accordo infatti viene concesso alle merci e prodotti afgani di essere esportati sul mercato indiano, ma impedisce il passaggio inverso, giustificando tale scelta con ragioni di ri-esportazione delle merci. In realtà questa astuta mossa ha l’intento di limitare l’esportazione di prodotti made in India. I rapporti tra Afghanistan e Pakistan non sono mai stati troppo idilliaci ma negli ultimi anni e soprattutto con l’elezione al governo centrale pakistano di Zardari nel 2008 non si può non notare il miglioramento delle relazioni bilaterali tra i due paesi: si parte con un forte sostegno alla rielezione di Karzai nelle elezioni del 2009, forse anche a causa della mancanza di altre alternative; un ruolo alquanto influente nel High Peace Council (organismo che ha l’obiettivo di reintegrare alcuni combattenti afgani all’interno della società afgana e facilitare il processo di riconciliazione).

Concettina Putzolu

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Leggi qui la seconda parte dell'articolo di Concettina Putzolu 

Un tè lungo la ring road – 2

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Parte II – Seconda parte della nostra analisi del viaggio del Primo Ministro indiano in Afghanistan. L'India cerca di inserirsi in un gioco alquanto complesso, dove i rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, dopo l'uccisione di Bin Laden, hanno bisogno di un nuovo slancio. Quali sono gli spazi di manovra per il colosso indiano? Nuova Delhi cerca di sottrarre spazio a Islamabad, e di guadagnare un posto di primo piano nella contesa regionale. Con un occhio rivolto alla Cina…

Parte II di II

LA STRATEGIA DI NUOVA DELHI – Sul lato opposto rispetto al Pakistan si posiziona l’India che è alla ricerca di una maggior influenza sul territorio afgano e forte del suo ruolo di potenze economica nell’area asiatica, è oggi uno dei principali donatori nelle politiche di ricostruzione e sviluppo in Afghanistan: la visita stessa del Primo Ministro indiano sancisce ulteriori aiuti finanziari per un totale di 1.5 miliardi di dollari; l’India fornisce inoltre tecnologia di buon livello tramite propri ingegneri al lavoro in tutto il paese per la costruzione di dighe (tra cui una nella regione di Herat) e programmi di ricostruzione di centrali idroelettriche. Da non trascurare la costruzione della Ring Road, la più importante ed anche unica strada in Afghanistan in grado di collegare l’intero paese: uno dei grossi e annosi problemi dell’Afghanistan è la mancanza totale di infrastrutture che non consentono e rendono più difficoltoso perciò lo sviluppo economico del paese. C’è chi vede dietro tutti questi progetti e sostegni indiani il secondo fine di accedere alle risorse energetiche del paese, principalmente idrocarburi, fondamentali nel sostenere l’attuale fase di ascesa economica indiana. Avere un ruolo attivo e centrale nel territorio afghano consentirebbe all’India di poter controllare i confini con il Pakistan da possibili infiltrazioni jihadiste. La visita del Primo Ministro indiano Manmohan, se segue quella dello scorso febbraio di Karzai in India, è servita anche per ottenere rassicurazioni e vigilare sul processo di riconciliazione in atto nel paese, processo che può avere importanti ripercussioni sull’andamento dei finanziamenti dati all’Afghanistan: la paura che una ricaduta del paese nel baratro della guerra civile possa far andare in fumo i cospicui finanziamenti è piuttosto diffusa tra gli ambienti indiani. Ecco il motivo per cui l’India preme per una maggiore stabilità del paese dal punto vista interno.

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IL QUARTO ATTORE – Nel complesso scacchiere afgano e all’interno del triangolo indo-pakistano-afgano, chi gioca un ruolo fondamentale e decisivo sono gli Stati Uniti, artefici “dell’esportazione della democrazia” in Afghanistan e alleati sia dell’India che del Pakistan, considerato un alleato “imperfetto”. La politica estera americana in Afghanistan è attualmente ad un punto di non ritorno: da un lato l’uccisione di Osama Bin Laden parrebbe aver riportato serenità e tranquillità nel territorio afgano ma dall’altro non ha fatto altro che inasprire e incrinare i rapporti con l’alleato Pakistan che accusa gli Stati Uniti di aver violato la propria sovranità’ entrando in territorio pakistano senza nessun tipo di autorizzazione. Gli Stati Uniti si trovano ora a dover decidere tra un ritiro immediato delle truppe e quindi un maggior conferimento di autonomia alle autorità locali afgane e alle sue forze di polizia, anche attraverso il sostegno militare e cooperazione dei paesi alleati che hanno delle truppe sul suolo afgano tra i quali l’Italia, o un maggiore coinvolgimento stesso degli Stati Uniti sul suolo afgano, cosa attualmente poco probabile. L’opzione di un immediato ritiro delle truppe apre degli scenari complessi e intricati nella geopolitica della zona dell’Asia meridionale: a chi demandare e assegnare il ruolo centrale nell’opera di ricostruzione della nazione afgana? Al confinante Pakistan, da sempre alleato degli Stati Uniti, paese che non offre garanzie dal punto vista legale e democratico ma comunque incline ad avere un ruolo preponderante in Afghanistan con il quale condivide i confini territoriali? Oppure all’alleata India, uno dei principali partner esteri del commercio di beni e servizi con gli Stati Uniti e paese dove quest’ultimi hanno i maggiori investimenti economici e che sarebbe anche ago della bilancia nella zona Asiatica e controparte del dragone cinese?

SCENARI FUTURI – I rapporti tra Pakistan e Stati Uniti sono al momento alquanto delicati, il Pakistan è agli occhi degli americani un alleato “imperfetto”: gli USA sospettano e accusano il Pakistan di complicità e appoggio ad organizzazioni terroristiche di matrice jihadista; la complicità dell’Isi, l’intelligence pakistana, con gruppi di jihadisti con l’intento di intimidire l’India è ben nota. Ma nonostante questo la diplomazia americana cerca di tenere in piedi l’immagine di una stretta collaborazione con le forze pakistane. Inoltre negli ultimi tempi i rapporti tra Pakistan e Afghanistan hanno raggiunto ottimi livelli di dialogo e cooperazione sia dal punto di vista politico sia economico tali da far presagire per il Pakistan un ruolo centrale e predominante nel processo di riconciliazione e ricostruzione afgana. Dall’altro, il riavvicinamento del Pakistan, ha sicuramente aumentato i timori delle autorità e della diplomazia indiana che ha tutto l’interesse, per i motivi esposti sopra, ad avere un ruolo di pivot in Afghanistan. La visita di Manmohan Singh è volta a mostrare al mondo, e soprattutto al Pakistan e alla Cina, il ruolo che questo paese è pronto a rivestire all’interno del complesso sistema economico mondiale (l’India si candida, secondo alcuni analisti, a superare la Cina come potenza economica globale). Le future mosse dell’alleato indiano potrebbero aprire degli scenari decisivi per la sicurezza e stabilità dell’Afghanistan e sia per il futuro sviluppo economico di questo paese. Decisivo per le relazioni tra i due paesi saranno anche le prossime mosse e decisioni che saranno prese dall’amministrazione Obama.

Concettina Putzolu

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Cristina concede il bis?

Sta per cominciare la campagna elettorale per le elezioni presidenziali argentine. A pochi giorni dal termine della presentazione delle candidature, tuttavia, pesa ancora un certo grado di incertezza sulla decisione di Cristina Kirchner, presidente in carica. Cercherà di essere eletta per la seconda volta? Ecco i possibili scenari

COMINCIA LA CORSA – E' stata fissata nei giorni scorsi la data delle prossime elezioni in Argentina: il 23 ottobre 2011 i cittadini della nazione sudamericana dovranno rieleggere metà dei deputati, i senatori di otto province e il nuovo Presidente. E' ovviamente intorno alla nomina di quest'ultimo che si concentra la maggiore attenzione. In queste settimane, nelle quali la situazione degli schieramenti politici è ancora piuttosto confusa (riflettendo del resto la frammentazione del sistema partitico argentino), l'attesa cresce in merito alla decisione di Cristina Fernández de Kirchner, Presidente in carica e leader del Peronismo “oficialista”. Si ricandiderà oppure no?

 

CRISTINA “BIS” – I sondaggi più recenti affermano che, in caso di ricandidatura, la Kirchner potrebbe ottenere il 58% dei voti, vincendo così al primo turno ed evitando il ballottaggio programmato per il 20 novembre. Sono parecchi i fattori che spiegano un così elevato tasso di approvazione nell'elettorato: innanzitutto, il sentimento di vicinanza di gran parte della popolazione alla “Presidenta” in seguito alla morte del marito Néstor (al potere nel mandato precedente e deceduto nello scorso ottobre in seguito ad un infarto) è ancora molto forte. Secondariamente, la forte e sostenuta crescita economica (il PIL è cresciuto dell' 8,5% nel 2010 e dovrebbe crescere di oltre il 6% quest'anno) sembra premiare l'operato del Governo. Infine, la permanente frammentazione dell'opposizione (che tuttavia è riuscita ad ottenere la maggioranza in Parlamento in occasione delle elezioni di medio termine due anni fa) sembra rendere il gioco più semplice per Cristina.

Per tutti questi motivi, sembrerebbe dunque scontato per il Partido Justicialista ricandidare nuovamente la Kirchner e ottenere perciò la terza vittoria consecutiva. In realtà, la vedova di Néstor non ha ancora sciolto le riserve: c'è chi parla solamente di “pre-tattica” e chi invece sostiene che la “Presidenta” soffre di problemi di salute (sembra pressione alta, infatti due recenti viaggi all'estero sono stati annullati all'ultimo momento) che le suggerirebbero di passare la mano, almeno momentaneamente. La ricandidatura sembra comunque al momento lo scenario più probabile; in caso Cristina Kirchner decidesse invece in altro modo, il candidato del PJ dovrebbe essere Daniel Scioli, governatore della Provincia di Buenos Aires.

 

QUI OPPOSIZIONE – La magmatica opposizione argentina al peronismo sembrava decisa a fare fronte comune per cercare di sconfiggere la macchina elettorale kirchnerista, unendo le forze di centrodestra dell'Unión Cívica Radical con quelle di sinistra del Partito Socialista, presentando come candidato il leader del primo partito, Ricardo Alfonsín (figlio del Raúl che governò l'Argentina negli anni '80 dopo la dittatura militare). In realtà, nelle ultime settimane l'accordo elettorale è saltato e i due partiti correranno separati: il leader dei Socialisti e governatore della Provincia di Santa Fe, Hermes Binner, ha presentato la propria candidatura con un programma che si ispira alla socialdemocrazia di stampo “lulista”. Dall'altra parte, Alfonsín ha chiamato a raccolta tutti gli argentini a votare per la propria coalizione, che per il momento prevede anche l'appoggio di Francisco De Narváez, esponente del PRO (Propuesta Republicana), la formazione di centrodestra il cui leader è Mauricio Macri, l'imprenditore attualmente sindaco di Buenos Aires.

Se le speranze per l'opposizione sembravano limitate in caso di una coalizione estesa e trasversale, a maggior ragione si assottigliano con la frammentazione dei principali partiti in due cartelli elettorali antagonisti.

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PROSPETTIVE – In caso di ricandidatura di Cristina Kirchner, sembra molto probabile una riconferma del PJ al Governo. Il livello di incertezza potrebbe aumentare nel caso in cui la “Presidenta” dovesse decidere di rinunciare, anche se una vittoria dell'opposizione pare al momento una remota possibilità. Il successo e la popolarità della Kirchner dovranno comunque essere confermati da politiche opportune, soprattutto in campo economico: il sistema produttivo argentino è ancora piuttosto fragile e dipendente dall'agricoltura (il boom degli ultimi anni è dovuto ancora in gran parte alla coltivazione della soia). Inoltre, la crescita dell'inflazione sarà un fattore da tenere sotto controllo: nonostante le statistiche governative riportino delle cifre inferiori al 10%, stime più attendibili rivelano che l'aumento dei prezzi è oscillato negli ultimi anni tra il 20 e il 30%.

 

Davide Tentori

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L’Italia tra triplice alleanza e triplice intesa

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Caffè 150 – Il 1882 segna l’abbandono della politica di non-allineamento che l’Italia aveva mantenuto a partire dall’Unità e il suo ingresso nel sistema difensivo bismarckiano attraverso l’adesione alla Triplice Alleanza affianco a Germania e Austria-Ungheria. La situazione europea contingente, i moti interni legati alla questione delle terre irredente, la paura che le idee repubblicane potessero minare la monarchia sabauda e la volontà di portare il paese nel sistema internazionale europeo, costrinsero il governo ad adottare una nuova politica attiva.

 

L’ITALIA ENTRA NELLA TRIPLICE ALLEANZA: La decisione di optare per la Triplice, nonostante il forte sentimento anti-austriaco italiano, fu determinata dagli accordi che le potenze europee stipularono allaConferenza di Berlino del 1878 con la quale posero fine alla Questione Orientale e iniziarono la “spartizione del mondo”.

L’avallo concesso da Gran Bretagna e Germania alla Francia per l’espansione in Tunisia, dove il Regno d’Italia aveva importanti interessi economici, evidenziò la necessità di abbandonare al più presto la politica di non-allineamento se si voleva raggiungere una posizione equiparata a quella degli altri paesi. Il 20 Maggio 1882 il Ministro degli Esteri Mancini firmò il Trattato di adesione alla Triplice Alleanza.

Inizialmente l’Italia si trovava in una posizione di debolezza rispetto agli alleati, ciò non deve distogliere l’attenzione però dal fatto che grazie a questo accordo Bismarck scongiurava il pericolo di un avvicinamento della Francia all’Italia, e l’Austria vedeva placati, almeno momentaneamente, i moti irredentisti nei suoi territori a maggioranza italiana.

 

LA MANCATA STRATEGIA INTERNAZIONALE DEL REGNO: Solo a partire dal 1887, anno del primo rinnovo della Triplice, la situazione internazionale divenne più favorevole per l’Italia. Tale posizione di vantaggio non trovava però le sue radici nella politica attiva e accorta del governo, ma bensì nelle difficoltà che si vennero a creare nel contesto europeo.

Il rinfocolarsi delle tensioni austro-russe e di quelle franco-tedesche fecero assumere un peso maggiore all’Italia sia per Triplice, sia per i paesi non alleati che iniziarono ad avvicinarla a sé per sottrarla agli avversari.

Fu grazie a questo stato di cose che il governo riuscì ad ottenere il tacito assenso per la futura espansione coloniale in Libia, e soprattutto ottenne l’accettazione del principio di compensazione territoriale da parte dell’Austria-Ungheria nel caso di un suo ampliamento di controllo sui Balcani.

Non essendo frutto di una vera strategia di politica internazionale, questa situazione però non era destinata a durare a lungo.

 

I PRIMI MUTAMENTI IN AMBITO INTERNAZIONALE:Dal 1890, a causa del passaggio dalla politica di equilibrio e di salvaguardia dello status quo continentale di Bismarck alla politica di potenza di Guglielmo II, si venne a rafforzare da prima l’alleanza franco-russa in funzione anti-tedesca, ed in seguito quella franco-britannica attraverso l’entente cordiale, con la quale le due potenze si riconoscevano tutte le conquiste coloniali e la rispettiva influenza in Marocco e in Egitto. Da questi due accordi nel 1907 nacque la Triplice Intesa, un’alleanza difensiva in funzione anti-tedesca.

In quegli anni l’Italia assunse effettivamente il ruolo di ago della bilancia negli equilibri europei tra le due opposte fazioni, perché sebbene facesse parte della Triplice, quest’ultima fu sempre minata dai contrasti tra il Regno e l’Austria per la questione delle terre irredente e dell’espansionismo asburgico nei Balcani.

 

GLI AZZARDI DELLA POLITICA INTERNAZIONALE ITALIANA – La volontà di sfruttare la situazione internazionale e quella di dimostrare di meritare un ruolo di grande potenza equiparato a quello degli altri paesi portarono l’Italia a fare delle scelte azzardate in ambito coloniale. In poco tempo ciò le causò la perdita della posizione di vantaggio che aveva fortuitamente guadagnato negli anni precedenti, il rispetto e la considerazione in ambito europeo.

La disfatta di Adua del 1896 e la successiva annessione forzata della Libia nel 1912 non provocarono un’aperta opposizione né degli alleati, né di Francia e Gran Bretagna. Nonostante queste ultime non ne condividessero i metodi, temessero per una destabilizzazione dell’area balcanica e l’intervento italiano fosse in aperto contrasto con la politica britannica nel Mediterraneo, la necessità di allontanarla dalla Triplice le portò ad optare per il mantenimento di un atteggiamento di silente contrarietà e aperta condiscendenza.

La politica estera italiana palesò in quelle circostanze tutti i suoi limiti, il suo personalismo e la sua incapacità di creare situazioni favorevoli per sé, si dimostrò in grado solo di sfruttare le circostanze derivate dalla situazione contingente. L’unico motivo che spingeva il governo all’azione era la voglia di guadagnare qualcosa soddisfando le rivendicazioni sulle terre irredente, ricercando la posizione egualitaria e salvaguardando la monarchia sabauda dai i moti repubblicani.

 

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IL NUOVO SISTEMA DI ALLEANZE E LA GRANDE GUERRA – Anche le blande reazioni delle potenze europee però in quel momento trovavano la loro ragion d’essere nel contesto internazionale.

La frattura tra le potenze dell’Intesa e gli Imperi Centrali era sempre più profonda. La crisi marocchina del 1911, la politica coloniale tedesca in contrasto con quella britannica, ed il rafforzamento dell’alleanza tedesca con l’Austria della quale appoggiava le mire sui Balcani ostacolando le ambizioni russe, trasformarono l’Italia in un prezioso alleato.

Non solo, a causare il definitivo collasso della Triplice sopraggiunsero anche gli eventi successivi all’attentato di Sarajevo. L’ultimatum di Germania e Austria inviato alla Serbia e la successiva dichiarazione di guerra non erano stati in alcun modo concordati con l’Italia, in aperta violazione del trattato. Ciò permise al governo italiano di sentirsi libero da ogni obbligo e di poter prendere le distanze da un’alleanza che non rispondeva più in maniera efficace agli obbiettivi della politica estera nazionale. Inoltre, il rifiuto da parte austriaca di compensare l’Italia, in caso di espansioni territoriali nei Balcani, fece definitivamente cadere l’ipotesi di entrare in guerra al fianco delle Potenze Centrali e diede avvio alle trattative con l’Intesa. Solo dieci giorni prima che l’Italia firmasse il Patto di Londra la corona asburgica acconsentì a farle delle concessioni nella speranza di guadagnare almeno la sua neutralità, ma la proposta arrivò tardiva e insoddisfacente. Il 26 aprile 1915 l’Italia entrò a far parte dell’Intesa.

 

I RAPPORTI CON I NUOVI ALLEATI – Il patto prevedeval’ingresso in guerra dell’Italia entro un mese contro tutti i nemici comuni, in cambio, a guerra finita, avrebbe conseguito i confini naturali della penisola, attraverso l’annessione del Trentino, del sud Tirolo fino al confine del Brennero, la Venezia Giulia e l’intera penisola Istriana (esclusa la città di Fiume) una parte della Dalmazia e numerose isole adriatiche.

Tuttavia l’intesa tra gli alleati non fu mai totale. Le distanze venivano aumentate dai diversi obbiettivi con cui i le nazioni affiancate nella lotta agli imperi centrali erano scese in guerra. Per l’Italia contavano molto le questioni irredentiste e di conseguenza la sconfitta del vecchio nemico, l’Austria. Per Inghilterra, Francia e Russia l’avversario da battere era soprattutto l’impero prussiano. Non a caso il Regno d’Italia dichiarò guerra alla Germania solo 15 mesi dopo l’inizio delle ostilità con gli austriaci.

A causa di questa divergenza di vedute i rapporti con gli alleati, anche in questo caso, furono sempre piuttosto tesi.

 

LA FINE DELLA GUERRA E LA POLITICA WILSONIANA:Con la fine del conflitto l’Italia comprese che la sua mancata volontà di partecipare attivamente al conseguimento di un obiettivo comune, le impedì di raggiungere l’agognato status di potenza eguale e il suo rimase sempre un ruolo di attrice non protagonista. Non era stata resa partecipe degli accordi su Costantinopoli e di quelli di Sykes-Picot e il successo dei 14 punti di Wilson la resero in un “alleato dimezzato”. Ilprincipio di nazionalità stabilito dal presidente statunitense, inoltre, confliggeva con agli accordi stipulati a Londra, e riconosceva i confini naturali dell’Italia solo alla metà occidentale dell’Istria. Molte delle richieste di compensazione territoriale fatte dal governo italiano non furono accolte e a tal proposito nel Regno si parlò di“vittoria mutilata”.

 

Marianna Piano

Che cosa vogliamo? Semplicemente la libertà

Che cosa vogliamo? Il regime sostiene di non aver idea di cosa vuole l'opposizione. E' difficile da credere… Non ci hanno forse visto manifestare, ascoltato i nostri slogan, letto ciò che scriviamo? Hanno facebook? Davvero, è scritto lì: "La soluzione è semplice: smetterla di sparare ai manifestanti, consentire le manifestazioni pacifiche, rilasciare tutti i prigionieri politici, ammettere il pluralismo politico e indire libere elezioni in sei mesi." Amina Abdullah, blogger siriana, è scomparsa a Damasco, rapita o forse arrestata. Vi proponiamo un suo recente articolo

di Amina Abdullah – tramite Notizie Radicali

E PER ASSAD? "Tu sarai l'orgoglio della Siria contemporanea, se trasformerai la Siria da dittatura a democrazia. I siriani ti sarebbero grati per questo, e riuscirci è possibile ". Ma forse è troppo semplice. Non è stata proprio Emma [1] a dichiarare in quel terribile articolo su Vogue che nella famiglia reale praticano la democrazia? Noi vogliamo la fine della dittatura. Vogliamo elezioni libere ed eque. Vogliamo libertà. Vogliamo che la Costituzione cambi, che sia eliminata l'ottava sezione e lo status speciale del Partito Baath[2]. Chiediamo l'abolizione del Fronte Nazionale Progressista [3] e dei divieti sugli altri partiti. Che siano lasciati organizzare apertamente per competere nelle votazioni e lasciare che sia il popolo a decidere … tutti, senza eccezioni: i partiti islamici, la Fratellanza [4], i partiti curdi, tutti – se un partito vuole correre con un programma di "Siriani per Israele", che falliscano alle urne!

Cerchiamo di discutere su come possiamo avere il sistema più democratico possibile per eleggere un parlamento che governi veramente; ci sono ottime idee che hanno funzionato in altri paesi che possiamo copiare o migliorare… Cambiamo il modo in cui il Presidente è scelto; non più referendum con un'unica scelta, ma un vero voto popolare. E forse, potremmo anche eleggere Bashar… E già che ci siamo, cerchiamo di avere una presidenza che non debba fornire alcuna prova religiosa; che il Presidente sia siriano dovrebbe essere sufficiente.

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ll popolo della Siria è uno, noi dobbiamo essere un tutto indiviso. Cerchiamo di metter fine al settarismo… ma non combattendo per il dominio, non discutendo chi tra Ali o Maometto o Maroun o Al Hakim o Kefa[5] è il più grande, ma piuttosto affermando che nessuna singola identità religiosa deve avere risalto rispetto alle altre, che tutte le le religioni siano uguali ed ugualmente libere… lo Stato non promuoverà né proibirà qualsiasi visione di Dio e lascerà che ciascuno professi la fede che preferisce.

Dobbiamo rimuovere le icone e gli idoli di questo regime. Vogliamo la fine della repressione, della censura sulla stampa, delle restrizioni su ciò che leggiamo e ciò che vediamo. Non siamo bambini.

Vogliamo la fine dell'uso della forza per sopprimere il dissenso. Vogliamo il diritto di protestare e il diritto di non avere paura. Vogliamo la fine delle incarcerazioni di gente che dà voce alle proprie idee. Vogliamo la fine di torture e abusi. Vogliamo una società basata sulle leggi, dove nessuno è al di sopra della legge e una legge vale per tutti. Ma soprattutto vogliamo la libertà.

 

Traduzione di Paolo Magnani

da Notizie Radicali – Voci dal Mondo

 

[1] Nome con cui era conosciuta a Londra Asma al-Assad, moglie del presidente siriano

[2] Partito socialista. Dal 1973 la Costituzione gli affida il ruolo guida della società e di fatto lo riconosce come partito unico dello Stato.

[3] Alleanza di dieci partiti ammessi dalla legge egemonizzata dal Baath

[4] I Fratelli Musulmani, organizzazione politica islamica

[5] Figure della mitologia religiosa araba

La vittoria della paura?

Il ballottaggio in Perú ha decretato che il nuovo Presidente è Ollanta Humala, leader della sinistra populista. Sconfitta Keiko Fujimori, figlia dell'ex dittatore di destra Alberto, a capo di un regime fortemente autoritario negli anni '90. Lo scrittore peruviano Vargas Llosa aveva descritto il ballottaggio come “la scelta tra il cancro e l'Aids”, dato che entrambi i candidati rappresentavano posizioni politiche estreme. La vittoria di Humala può essere considerata come una reazione dei peruviani al timore di una nuova deriva autoritaria?

ALLA FINE CE L'HA FATTA – Al secondo tentativo, Ollanta Humala è Presidente del Perù. Leader della coalizione elettorale di sinistra “Gana Perù”, Humala aveva già partecipato alle elezioni del 2006, quando era stato sconfitto al ballottaggio da Alan Garcia nonostante avesse vinto al primo turno. Questa volta, però, la vittoria è sua: al secondo turno che si è svolto domenica 5 giugno, il leader di origini indigene ha sconfitto la rivale Keiko Fujimori, oriunda di origine giapponese ed esponente del movimento di destra “Fuerza 2011” e figlia dell'ex dittatore Alberto. Le urne hanno decretato che Humala è il nuovo Presidente della nazione sudamericana con uno scarto compreso tra i 2 e i 4 punti percentuali: lo scrutinio al momento in cui scriviamo non è ancora del tutto completo.

Le urne, dunque, restituiscono un esito che ridimensiona le componenti più moderate dello schieramento politico peruviano: al primo turno, infatti, i partiti di centro-destra e centro-sinistra avevano pagato la loro frammentazione fra i tre candidati (Toledo, Kuczinsky e Castañeda) consegnando il Paese nelle mani dei due candidati considerati “estremisti”. Da una parte Humala incarnava il pericolo del “Chavismo”, data la vicinanza ideologica con il presidente autoritario del Venezuela, mentre dall'altra Fujimori rappresentava lo spettro del possibile ritorno della dittatura di destra che i peruviani dovettero soffrire negli anni Novanta.

 

TURARSI IL NASO? – E' possibile, dunque, che i peruviani si siano “turati il naso” e siano andati al ballottaggio scegliendo il male minore? Mario Vargas Llosa, noto scrittore peruviano ed ex premio Nobel, aveva definito il secondo turno come la scelta tra “il cancro e l'Aids”, mettendo in guardia sul pericolo di una deriva autoritaria e populista, qualunque dei due candidati avesse vinto. Vargas Llosa si era poi convinto a votare Humala considerandolo come una scelta obbligata, segno che la paura che potesse tornare una “Fujimori” al potere fosse una ragione sufficiente per votare l'altro candidato. E' possibile che parte della vittoria di Humala possa essere spiegata con questa chiave di lettura, ma è una spiegazione parziale e riduttiva del consenso che i due candidati hanno ottenuto al primo turno. Il candidato di “Gana Perù” aveva già ottenuto il 31% dei consensi al primo turno mentre Fujimori si era fermata al 23%: dato che il divario al ballottaggio si è assottigliato, la spiegazione di un “fronte democratico comune” contro il ritorno della destra non regge.

Il voto di domenica è dunque piuttosto l'indice di una forte polarizzazione politica e sociale in Perù, fattore che potrebbe destare qualche campanello di allarme perchè potrebbe minare la stabilità istituzionale e di riflesso la straordinaria crescita economica di cui la nazione sudamericana è stata protagonista negli ultimi anni.

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LA BORSA CROLLA – Le istituzioni economiche e finanziarie peruviane, intanto, non hanno accolto affatto bene la notizia della vittoria di Humala. Ieri la borsa valori di Lima è stata chiusa per eccesso di ribasso e ha chiuso la giornata con una perdita del 12%, segno che il mercato non ha fiducia nel leader di sinistra, per il timore di nazionalizzazioni ed espropri sull'onda di quanto accaduto in Venezuela e Bolivia negli ultimi anni. Ollanta Humala, in realtà, in campagna elettorale ha solennemente promesso che non toccherà l'economia di mercato e che rispetterà l'autonomia dei media. Il candidato di “Gana Perù” aveva anche preso le distanze da Chávez cercando di prendere come proprio modello politico l'ex presidente brasiliano Lula da Silva.

I primi passi del nuovo Governo, che sarà costruito su una maggioranza fragile, dato che le elezioni del primo turno hanno decretato un'elevata frammentazione del Parlamento, saranno molto importanti per vedere in quale direzione si muoverà il nuovo Perù. Anche gli investitori stranieri, da alcuni anni molto attivi per la presenza di giacimenti di idrocarburi, terranno sicuramente gli occhi molto aperti. A Humala il compito di rassicurare tutti quanti e di proseguire sul cammino della crescita (+ 8% nel 2010 e +6,5% atteso nel 2011) e della riduzione della povertà.

 

Davide Tentori

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