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I fantasmi del passato

Mentre il Governo Netanyahu ha implementato il blocco temporaneo alle costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania, gli oppositori manifestano la preoccupazione che Israele si ritrovi presto a dover gestire una seconda Gaza

UNO STOP DAL POPOLO – Negli ultimi mesi ha fatto notizia tanto in Israele quanto all’estero l’incremento di popolarità registrato a favore del premier Binyamin Netanyahu e del suo Governo dopo che, a seguito della vittoria alle elezioni meno di un anno fa, il destino del nuovo esecutivo appariva quanto mai incerto e fragile. Tuttavia, quando recentemente si è deciso di implementare il piano di contenimento delle costruzioni negli insediamenti israeliani in Cisgiordania, tale slancio di popolarità ha subìto un’improvvisa battuta d’arresto a causa della decisa opposizione espressa da diversi segmenti della popolazione israeliana al piano: il nucleo dei critici di tale decisione sono ovviamente gli stessi abitanti degli insediamenti, ma la loro protesta sta attirando l’attenzione e soprattutto la solidarietà da parte anche di chi non è toccato in prima persona dal blocco. Ecco il perché. 

UNA SECONDA GAZA? – Le motivazioni di tanta opposizione ad una decisione che potrebbe riportare israeliani e palestinesi ad un tavolo di pace, sono radicate nella paura che tale blocco delle costruzioni sia soltanto il preludio a qualcosa di peggiore, come un possibile ritiro dall’intera Cisgiordania. Nella memoria a breve termine degli israeliani è infatti ancora fresco il ricordo negativo del disimpegno unilaterale dagli insediamenti di Gaza avvenuto nel 2005: famiglie intere sradicate dalle proprie vite, obbligate a lasciarsi per sempre alle spalle la terra dove in molti erano nati, per ritrovarsi all'improvviso a dover ricominciare tutto da zero. Anche all’epoca si diceva che tutta questa sofferenza era giustificata da un motivo nobile, ovvero la speranza di compiere passi significativi verso una pace duratura: ma dopo il rapimento di Gilad Shalit nel 2006, la presa di potere di Hamas nel corso del 2007, la pioggia di missili Quassam sui territori adiacenti alla Striscia di Gaza fino al gennaio 2009 ed arrestata solo con l’offensiva militare Piombo Fuso, l’opinione pubblica israeliana è quanto mai disillusa e non crede più che concessioni unilaterali siano la soluzione per raggiungere un accordo definitivo con i palestinesi. 

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NON C’E’ DUE SENZA TRE? – È per questo motivo che, per quanto le manifestazioni di opposizione al blocco degli insediamenti in Cisgiordania (nella foto) siano state finora per lo più pacifiche, il Governo israeliano non ha cambiato rotta e ha continuato con decisione ad implementare il proprio piano. Se la pressione internazionale, proveniente soprattutto dall’Amministrazione Obama, ha posto il blocco delle costruzioni come condizione necessaria al fine di riavviare le trattative di pace, evidentemente il premier Netanyahu ha valutato che, nonostante le proteste interne, questo è un rischio che vale la pena correre. Ma deve fare molta attenzione, lo avvertono i cittadini degli insediamenti, perché la Cisgiordania non è Gaza, e lo sradicamento di circa 8000 persone nel 2005 da Gaza non è neanche lontanamente paragonabile alla possibilità di sradicare i quasi 300000 residenti nella Cisgiordania del 2010. È per questo che, se si dovesse tornare ad un tavolo di pace con i palestinesi, l’opinione pubblica israeliana è decisamente coesa nella propensione a trattare su un possibile scambio di territori piuttosto che su ritiri unilaterali. L’idea, tra l’altro alla base del piano di pace proposto dall’ex-premier Ehud Olmert, è che le zone e le città dove ormai la presenza israeliana è maggioritaria e radicata resteranno ad Israele; in compenso lo Stato Ebraico si priverà di alcuni dei suoi attuali territori, al fine di annetterli ad un futuro Stato palestinese. Ma, nonostante questo, la paura di un ritiro unilaterale resta ancora forte per un motivo forse paradossale: le altre due volte in cui Israele si ritirò da territori precedentemente conquistati (dal Sinai nel 1982 e da Gaza nel 2005), ciò avvenne per mano di Governi guidati dal Likud, il partito di centro-destra le cui posizioni sono solitamente considerate meno flessibili e meno propense a fare concessioni, e lo stesso Likud è proprio il partito maggiore nell’attuale Governo Netanyahu. Che il blocco sia quindi soltanto il primo passo per uno smantellamento definitivo? Per ora tutti lo negano, e l’ipotesi appare ancora assai remota: ma di certo gli abitanti degli insediamenti, appoggiati da buona parte della popolazione israeliana, sperano che almeno questa volta la regola del ‘non c’è due senza tre’ non si realizzi.

David Braha [email protected]

Il ritorno di Al-Qaeda

Ammesso che al-Qaeda sia effettivamente quella che noi conosciamo e che esista nella forma e nella sostanza in cui ci viene presentata, l’organizzazione capeggiata da Osama Bin Laden torna nuovamente al centro dell’attenzione mediatica mondiale

I NUOVI ATTACCHI – Due sono i dati maggiormente preoccupanti che emergono da un’attenta analisi dei fatti: la nascita di un nuovo centro del terrorismo internazionale, lo Yemen, ma anche l’indipendenza di alcuni soggetti i quali agiscono ed operano anche al di fuori della classica rete del terrorismo. Non sono più esclusivamente i talebani dell’Afghanistan a detenere  il primato di “cattivi” della classe, ma una folta schiera di nuovi adepti (in particolare provenienti dall’Africa centrale ma anche dalle schiere di immigrati presenti in Europa) pare rimpinguare costantemente le fila dell’organizzazione terroristica più temuta al mondo. A questo punto occorre domandarsi con onestà non più se le politiche americane nella regione abbiano o meno fallito, ma semplicemente dove ed in cosa abbiano fallito. I qaedisti yemeniti avevano giurato vendetta per i bombardamenti americani avvenuti nel paese il 17 dicembre che avevano causato la morte di molti civili (circa 50), quasi tutti donne e bambini. Il raid Usa doveva originariamente stanare un gruppo di ribelli che secondo fonti di intelligence stava pianificando una serie di attacchi contro le sedi diplomatiche britanniche presenti Yemen. La risposta non si è fatta dunque attendere e solo la fortunata inettitudine di Omar Farouk Abd Al-Muttalab, nonché la prontezza di riflessi di un regista olandese, hanno impedito che questa fine di anno si macchiasse di sangue anche per l’Occidente.  

TERRORISMO FAI DA TE – La prime, banali, riflessioni sul caso potrebbero riguardare ovviamente le colpe dei servizi segreti europei ed americani, le falle di sicurezza interne al sistema aeroportuale, l’analisi della “mutanda-bomba” (definizione del Corriere della Sera) indossata dall’attentatore e così via, ma allora faremmo soltanto cronaca analizzando i fatti nella loro superficialità. Il terrorismo mondiale non è soltanto un albero che affonda le proprie radici in un’organizzazione definita ed inquadrabile, ma inizia col divenire un momento sempre più individuale che si abbevera del rancore e del sangue che quotidianamente viene versato in Medio Oriente. Lungi dal voler essere questa una giustificazione, possiamo però quanto meno affermare che le politiche occidentali nell’area, in particolare quelle di stampo statunitense, non fanno altro che peggiorare l’immagine di Washington nella regione. Secondariamente lo stesso identikit dell’attentatore nigeriano (presumibilimente persona colta e sicuramente molto ricca, figlio di un ex Governatore della Banca Centale della Nigeria) ci deve far comprendere come stia anche mutando persino la composizione stessa del terrorista di Al-Qaeda. 

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IL VENTRE MOLLE DEL MEDIO ORIENTE – Secondo il “Sun” 25 cittadini britannici di fede musulmana si starebbero attualmente addestrando proprio in Yemen. Terzo elemento da tenere nel giusto conto è appunto la drammatica situazione yemenita. Divenuto per molta parte terra di nessuno (che in questo caso dovrebbe più correttamente assumere la denominazione terra di tutti), il Paese arabo inizia a scivolare verso una pericolosa anarchia istituzionale. Come Il Caffè Geopolitico già scriveva quattro mesi fa, la piccola nazione araba potrebbe realmente divenire il ventre molle del medio oriente: il nuovo centro di un terrorismo mondiale che troverebbe un agevole rifugio fra le montagne yemenite ed a due passi dal Puntland somalo. Del resto i legami fra al-Qaeda e pirateria somala non sarebbero certo una novità.  

UN NUOVO FRONTE PER WASHINGTON? – Ed allora lasciano personalmente perplessi le dichiarazioni dell’ultimo Nobel per la Pace, il quale ha praticamente aperto, dopo i “successi” di Iraq ed Afghanistan, un terzo fronte per la lotta al terrorismo internazionale: lo Yemen. Secondo il New York Times, Obama avrebbe deciso di stanziare circa 70 milioni di dollari, spalmati in 18 mesi, per l’addestramento e l’equipaggiamento dell’esercito yemenita raddoppiando nei fatti il budget originariamente previsto. Dopo Afghanistan e Iraq, potrebbe esserci una nuova guerra?

Marco di Donato [email protected]

Il treppiede iraniano

Chi mai pensa che uno stato possa essere rappresentato da un mobile? Eppure esiste una teoria applicabile alla situazione iraniana attuale

 

LA STRUTTURA – Si dice che un treppiede sia la più instabile delle strutture politiche di governo. In essa, tre fazioni, correnti, partiti o associazioni sono in equilibrio tra loro per sostenere l’ordinamento statale. E’ instabile perché è necessario un equilibrio perfetto tra di esse per mantenere lo status quo e, dunque, permettere la sopravvivenza del sistema.L’Iran dopo Khomeini viene spesso considerato un paese dove i conservatori detengono il potere reprimendo i riformisti, ma non è proprio così. In particolare, è errato considerare i conservatori come un’unica entità indivisa. In realtà la pace interna era garantita da un particolare rapporto tra i riformisti, i conservatori e gli ultraconservatori: un treppiede appunto.Quando i riformisti hanno tentato di portare avanti riforme sostanziali, sono stati bloccati dai conservatori e dagli ultraconservatori. Ma non sono stati eliminati, perché i conservatori ne avevano bisogno per convogliare le tensioni della popolazione giovane desiderosa di libertà e contemporaneamente per contrastare le spinte estremiste degli ultraconservatori, giudicate foriere di un futuro isolamento del regime degli Ayatollah. In tal modo, lo status quo è sopravvissuto per anni: nessuna fazione poteva eliminare le altre e dominarle, perché le altre operavano in senso contrario. A una prima occhiata può sembrare che i riformisti non siano mai stati in una tale situazione di “parità”; qui però non si parla di uguaglianza istituzionale, bensì del fatto che il sistema iraniano, con le sue tre anime, abbia impedito che le spinte dei due estremi potessero portare il sistema-paese verso un cambiamento sostanziale.

 

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INSTABILITA’Un treppiede politico mostra la sua instabilità e crolla quando due delle tre “gambe” che lo sorreggono decidono di rompere l’equilibrio coalizzandosi per distruggere la terza. In Iran questo è successo quando i conservatori legati all’Ayatollah Ali Khamenei hanno fatto rieleggere Presidente Mahmud Ahmadi-nejad, legato alla corrente ultraortodossa dell’Ayatollah Mesbah-Yazdi, di fatto eliminando ogni illusione che i riformisti potessero avere ancora un ruolo nel paese. E’ stato il segnale di voler eliminare il “piede” riformista, che pure aveva dato chiari segni di necessitare un po’ più d’ascolto data la crisi economica interna e la crescente critica verso Ahmadi-nejad degli ultimi anni. E’ stata vista anzi come un tentativo di spostare il paese su posizioni ancora più ortodosse, per di più attraverso elezioni considerate truccate.Mir-Hussein Moussawi non è certo un campione del riformismo, ma sarebbe stato un buon compromesso per mantenere vivo lo status quo. Conservatore senza idee riformiste, ma apprezzato per la sua opposizione ad Ahmadinejad. Aver orchestrato la sua sconfitta appare invece ora un errore per Khamenei: Moussawi  (nella foto, manifesti in suo favore) sta raccogliendo supporto trasversale dai riformisti e da quei conservatori che si rifiutano di vedere un paese guidato dal clero più estremista o che sono nemici del Presidente. E il grido “morte al dittatore”, le immagini di Khamenei bruciate o cancellate, la repressione e i martiri della protesta che stanno diventando simboli ben più potenti degli slogan passati, ci mostrano un paese sull’orlo della guerra civile.I Pasdaran e le milizie Basiji sono ora abbastanza forti da mantenere il paese saldamente sotto il governo attuale. Ma per quanto? Quanto ci vorrà perché, per esempio, alcune unità dell’esercito regolare – anche se male armate – decidano di appoggiare i ribelli ora che anche parte del Clero conservatore meno estremista è con loro? Khamenei pensava che sopprimendo i riformisti lo sgabello sarebbe rimasto in equilibrio comunque, su due piedi. Invece sta crollando tutto insieme.

 

Gaza – C’è da festeggiare?

Migliaia di supporter di Hamas hanno festeggiato il 22esimo anniversario della nascita dell’organizzazione. Uomini in armi, anziani, donne e bambini: tutti nella grande piazza al-Kutiba per manifestare il proprio sostegno al leader Ismail Hania

HAMAS ANCORA POPOLARE? – Al di fuori di ogni possibile commento sui contenuti del discorso di Hania, il numero di partecipanti alla manifestazione è tale da non poter non imporre una riflessione. Da molti mesi alcuni analisti internazionali hanno voluto credere in un calo dei consensi per Hamas nella striscia di Gaza asserendo che ben presto la stessa popolazione avrebbe scacciato i miliziani islamici. Le immagini dell’altro giorno smentiscono però categoricamente questa affermazione. Anzi. Secondo il quotidiano “al-Quds al-Arabi” l’ANP avrebbe addirittura impedito lo svolgimento delle celebrazioni in Cisgiordania, provvedendo all’arresto di decine di militanti di Hamas, dimostrando così che, anche se non in maniera evidente, il sostegno ad Hamas nella West Bank è più che presente. Inoltre secondo l’autorevole quotidiano israeliano “Haa’retz”, Hamas avrebbe ingaggiato una durissima lotta ai movimenti estremisti presenti a Gaza i quali, finanche negli ultimi giorni, costantemente minano la sicurezza dei palestinesi residenti nella striscia e degli abitanti del sud di Israele. Questo ci aiuta in parte a dimostrare come Hamas si muova, seppur lentamente e cautamente, in maniera costante e progressiva verso posizioni più mitigate e moderate pur mantenendo intatto il suo zoccolo ideologico.

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TRA ISRAELE ED EGITTO – Rimane però ben poco altro da festeggiare a Gaza. Il blocco israeliano continua a distruggere la fragilissima economia locale, il numero di gaziani sotto la soglia di povertà aumenta esponenzialmente con il trascorrere dei giorni ed Hamas pur mantenendo intatta la vasta rete assistenziale, non appare in grado di procedere ad una ricostruzione infrastrutturale su larga scala. Ad aggiungere altro amaro ad una situazione drammatica, arrivano poi le recenti notizie secondo cui l’Egitto avrebbe iniziato la costruzione di una barriera lunga all’incirca una decina chilometri e profonda fino a 20-30 metri. L’obiettivo dichiarato è quello di arginare il traffico di armi che transita al di sotto del valico di Rafah e ad aiutare i carpentieri egiziani saranno presenti esperti americani che supervisioneranno l’intera esecuzione dell’opera. Il muro egiziano coprirà interamente dalla zona al-Barahma fino proprio al confine di Rafah e secondo la BBC, nonostante le smentite ufficiali, sarebbero già stati costruiti ben 4 chilometri dell’intera struttura. A Gaza non c’è davvero nulla di cui festeggiare… 

Marco Di Donato

Alleanza a rischio?

La Turchia ha negato a Israele di partecipare alle manovre militari aeree sul proprio territorio, come protesta per l’operazione Cast Lead a Gaza del dicembre-gennaio scorso. Un gesto isolato, oppure l’inizio di un rischio per le relazioni diplomatiche di entrambi?

 

NUOVI ATTRITI – E’ prassi comune tra alleati compiere manovre militari congiunte, così da permettere un addestramento più efficace, spingere i soldati a un maggiore impegno, e misurare la propria preparazione con quella altrui, imparando magari qualcosa nel caso gli altri mostrino capacità superiori. E’ raro invece che una nazione rifiuti di accettare la partecipazione di un paese con cui ha sempre collaborato. Ma i tempi cambiano e così gli atteggiamenti delle nazioni. Ecco dunque la decisione di Ankara di estromettere le forze aeree israeliane da una serie di esercitazioni aeree come risposta all’operazione Cast Lead a Gaza. Al di là del fatto e delle motivazione in sé, cosa può significare il gesto turco nei confronti di Israele?

 

Gerusalemme conta molto sulla Turchia come intermediario imparziale che favorisca un riavvicinamento con la Siria tramite i negoziati per la restituzione del Golan a Damasco. E’ un paese di cui entrambi i contendenti si fidano, e che pertanto può fungere da garante. Un atteggiamento turco ostile potrebbe dunque minare gli sforzi diplomatici israeliani, ed è per questo che la linea ufficiale di Israele è quella di minimizzare l’accaduto. E’ necessario infatti cercare di ricucire al più presto gli attriti.

 

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I RISCHI PER ANKARA – Al tempo stesso il governo Erdogan non deve esagerare. Certo, la Tuchia recentemente ha sfruttato alcune occasioni favorevoli per distinguersi: oltre ai rapporti tra Israeliani e Siriani, c’è l’aiuto nella stabilizzazione del nord dell’Iraq, la parziale ricucitura dei rapporti con l’Armenia, la ricerca – forse – di una soluzione al conflitto curdo. Tuttavia Ankara è vulnerabile dal lato diplomatico essendo ancora sotto scrutinio critico la sua richiesta di ammissione all’Unione Europea. Israele rimane infatti un partner molto importante per l’Occidente, che non può tollerare troppe frizioni tra i suoi due alleati. Vanno visti dunque in questo senso i rifiuti di vari paesi europei, Italia inclusa, a partecipare comunque all’esercitazione aerea: un modo per ricordare alla Turchia che l’Occidente, e l’Europa in particolare, non approvano e forse non sono disposti a sopportare che decisioni simili avvengano ancora.

 

Nuovo governo, nuova guerra

In attesa che Karzai renda pubblica la lista dei Ministri del suo prossimo Governo afghano, la ricerca di un difficile bilanciamento tra i problematici legami interni del Presidente e le pressioni esterne, soprattutto americane, si complica sempre più

L'OSPITE INATTESO?  Il Segretario delle Difesa americano Gates ha incontrato martedì il Presidente Karzai a Kabul, per approfondire la discussione sulle questioni chiave riguardanti il nuovo dispiegamento di truppe NATO nel Paese. Di certo l'occasione è stata utile per ribadire a Karzai che il ruolo delle forze afghane non potrà più essere marginale, dal punto di vista dell'impegno per la sicurezza.L'Amministrazione americana vuole quanto prima porre le basi per lasciare il Paese, per lasciare una guerra che, se condotta come negli otto anni passati, non porterà risultati e diventerà un boomerang politico per i leader che la sostengono, Obama in testa.D'altro canto, opportunità politica a parte, proseguire l'impegno in Afghanistan senza sostanziali cambiamenti, nonostante le elezioni, rappresenterebbe una disfatta per tutta la comunità internazionale e rappresenterebbe la fine delle speranze di chi vede nell'Afghanistan non solo un'area strategica da presidiare, ma anche un Paese da non abbandonare.Ad ogni modo, a dare le prime indicazioni su quali possano essere le posizioni e le possibilità del Presidente Karzai, saranno le nomine dei nuovi membri dell'esecutivo, che previste già nei giorni passati, sono slittate a settimana prossima, probabilmente anche per necessità espresse dall'ospite americano. 

 

I PIATTI DELLA BILANCIA – La pressione interna ed internazionale su Karzai si è concentrata sull'altissimo livello di corruzione del suo passato esecutivo, nonché sulla troppo stretta collaborazione con alcuni tra i maggiori rappresentanti dei “signori della guerra”.Di recente, a seguito del contestatissimo risultato elettorale  e dell'aumentare delle pressioni, è stato dato il via ad una serie di indagini che coinvolgono circa 15 tra membri dell'attuale Governo ed ex Ministri: fonti ufficiose riportano che tre Ministri sono sotto inchiesta e che due mandati d'arresto siano già stati emanati. La tempestività di queste azioni non è certo casuale, ma la sfida di Karzai è ardua: come allontanare dall'esecutivo e dai posti di potere quei soggetti che non sarebbero accettati dalla comunità internazionale e, in parte, dal Parlamento (a cui spetta la ratifica delle nomine)?Sulla bilancia di Karzai pesano dunque da una parte le pressioni esterne e, dall'altra, la consapevolezza che venir meno a taluni accordi, elettorali e non solo, diminuirà pesantemente la sua influenza e la sua capacità di interagire con alcuni importanti gruppi di potere del Paese, che potrebbero avere un ruolo importante nella (in)stabilità del Paese.

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NOMI NUOVI? – Tra i 26 membri del Governo attuale pochi sono i papabili per una nuova nomina. Dalle dichiarazioni dello staff del Presidente pare che si tenderà a rimpiazzare buona parte dell'esecutivo: le nuove posizioni dovrebbero essere fino a 21, con una importante presenza di tecnocrati ed una minore presenza militare. Se i numeri fossero questi, significherebbe che il peso dato da Karzai alle pressioni internazionali sarà maggiore dei timori legati alle reazioni di quelli che, allora, saranno potenzialmente ex-alleati. Ecco quindi una parziale lista riportata da alcune fonti giornalistiche afghane:

Ministero degli Interni: Zalmai Rasool Ministero degli Esteri: Said Tayeb Jawad Ministero delle Finanze: Ashraf Ghani Ministero del Commercio: Anwar ul-Haq Ahady (confermato) Ministero dell'Economia: Omar Zakhelwal (confermato) Ministero delle Comunicazioni: Amirzai Sangeen (confermato) Ministero dell'Agricoltura: Asif Rahimi (confermato) Ministero dell'Educazione: Farooq Wardak (confermato) Ministero dell'Informazione e Cultura: Sayed Makhdoom Raheen Ministero degli Affari Femminili: Shukria Barakzai Ministero degli Affari Religiosi: Rohul Aman Ministero della Salute: Najibullah Mojadadi Ministero dei Lavori Pubblici:  Hashem Bolad Ministero di Contrasto alla droga: Mirwais Yasini Ministero dei Trasporti: Sadeq Modaber

Dovrebbe cambiare anche la guida della Da Afghanistan Bank, la banca centrale del Paese. 

Pietro Costanzo

Guerra silenziosa

La cattura del carico di armi destinate a Hezbollah da parte dei commandos israeliani conferma la serie di mosse e contromosse che avviene dietro le quinte tra l’Iran e il mondo occidentale. Niente di nuovo per gli analisti, ma una sveglia per il pubblico.

 

ARMI DA TEHERAN – Abbiamo già parlato dell’importanza del lavoro di intelligence nella problematica iraniana; in questi giorni abbiamo avuto un’ulteriore prova, oltre a una conferma di come l’intera questione coinvolga aspetti ben più globali della semplice produzione di energia e armi nucleari.La recente cattura del mercantile Francop da parte del Shayetet 13 – i commandos della marina israeliana – è stato solo l’ultimo passo di un’operazione che secondo fonti di intelligence ha visto l’individuazione del carico da parte di CIA e Mossad fin dalla sua partenza dalle coste persiane su una nave iraniana, fino al trasferimento sulla Francop nel porto egiziano di Damietta. Da lì unità della marina USA e Israeliana hanno seguito il cargo da vicino fino all’abbordaggio. A ottobre il mercantile tedesco Hansa India venne individuato in maniera simile e costretto a dirigersi verso Malta, dove venne scoperto un carico di armi anch’esso diretto in Libano. La fornitura di armi ed equipaggiamenti dall’Iran a Hezbollah non è più un segreto da anni, ma le circa 500 tonnellate sequestrate sulla Francop è il più grande carico catturato da almeno dieci anni. Ci si chiede quanti altri carichi non siano mai stati individuati.

 

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HEZBOLLAH SI RIARMA – Secondo le prime rilevazioni le armi ed equipaggiamenti sequestrati confermano la tendenza del movimento sciita in Libano a riarmarsi pesantemente. La presenza di armi sofisticate quali moderni missili anticarro ne indica la funzione anti-israeliana, data la mancanza di mezzi corazzati pesanti nell’esercito libanese. I razzi a breve e media distanza invece vanno a ricostituire l’arsenale di cui Hezbollah disponeva prima della Seconda Guerra del Libano nel 2006; come già sperimentato in passato, l’utilizzo della armi appare rivolto contro le città israeliane. La cattura del Francop non porta dunque novità nelle valutazioni della maggior parte degli analisti occidentali, che già denunciano il fenomeno del riarmo clandestino del movimento guidato da Nasrallah fin dal 2007. Si registra però l’intensificarsi dell’attività preventiva, che sta rendendo più difficile l’approvigionamento di tali sofisticati equipaggiamenti da parte di Hezbollah. Inoltre contribuisce a smentire anche presso l’opinione pubblica le tesi innocentiste di chi tende a ignorare l’appoggio di Teheran al movimento sciita – peraltro più volte confermato da loro stessi – e il suo potenziale effetto destabilizzante sul Libano intero. Hezbollah infatti continua a mantenere una posizione dominante rispetto all’esercito regolare del paese dei Cedri.

 

IMPLICAZIONI – Del resto Teheran ha tutto l’interesse a supportare il movimento sciita: esso costituisce un mezzo utile per distrarre l’attenzione di Gerusalemme lontano dal Golfo Persico, costringendola a mantenere impegnate ingenti risorse militari e di intelligence a nord. Permette di avere un’arma puntata contro la popolazione israeliana – ottima arma per colpire il vero e forse unico punto debole delle Forze Armate israeliane: il morale della popolazione in patria. Consente di avere i mezzi per aprire un pericoloso secondo fronte nel caso di attacco israeliano (o occidentale in genere) e rendere dunque ogni conflitto molto più costoso in termini di vite umane.Questa strategia può essere contrastata solo con l’appoggio compatto del mondo occidentale – e non solo – ottenibile rendendo palesi le azioni destabilizzanti di Teheran. La cattura del carico della Francop va proprio in tale direzione e aggiunge un altro tassello alla guerra silenziosa che va avanti dietro le quinte tra Israele e l’Iran. Rimane da vedere se Teheran riuscirà a compiere a breve una contromossa.

 

Lorenzo Nannetti 

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L’Obama furioso

È sorto un contrasto tra il Presidente e il comandante delle truppe in Afghanistan, Stanley McChrystal. Il gruppo di coloro che sostengono la necessità di aumentare i militari presenti nella regione, tuttavia, potrebbe mettere in minoranza la Casa Bianca.

IL FATTO – Duro confronto tra il presidente Barack Obama e il comandante delle truppe statunitensi in Afghanistan Stanley McChrystal dopo le dichiarazioni rilasciate da quest’ ultimo durante una visita a Londra nei giorni scorsi. Il generale avrebbe infatti criticato pesantemente l’opzione proposta da Joe Biden per cercare una stabilizzazione delle regioni afghane ancora colpite dai terroristi. Il vicepresidente aveva chiesto infatti durante un incontro pubblico di concentrare gli sforzi delle operazioni contro le cellule di Al Qaeda nelle regioni tribali sul confine con il Pakistan. In un discorso pronunciato nella capitale inglese McChrystal avrebbe precisato di essere assolutamente contrario all’opzione proposta da Biden, facendo infuriare Barack Obama, che secondo indiscrezioni avrebbe gradito una risposta più equilibrata da parte del comandante delle truppe impegnate in Afghanistan. Il generale sarebbe poi stato a colloquio con il presidente a bordo dell’Air Force One e le dichiarazioni del consigliere per la sicurezza nazionale James Jones lasciano pensare che tra i due ci siano stati screzi di una certa rilevanza.

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LA QUESTIONE – Le decisioni definitive sul probabile nuovo corso delle operazioni nel paese asiatico dovrebbero essere prese la prossima settimana. In questi giorni Barack Obama avrebbe consultato più volte il generale David Petraeus, impegnato nella guerra in Iraq e primo sostenitore della strategia di contro insurrezione per bloccare le attività dei fondamentalisti nel paese. Dalle ultime indiscrezioni si è appreso che l’amministrazione statunitense non sarebbe disposta ad accogliere le richieste di McChrystal per l’Afghanistan. Potrebbe quindi tramontare l’ipotesi di un aumento delle truppe impegnate nel paese, anche se non si può escludere a priori la possibilità che proprio Petraeus possa giocare un ruolo determinante nel ribaltare la situazione attuale. Il generale dovrebbe infatti schierarsi a fianco di quanti chiedono ulteriori rinforzi per gli effettivi impegnati sul fronte afghano, come il Joint Chiefs of Staff Mike Mullen, e la sua influenza sulla Casa Bianca potrebbe quindi favorire un cambiamento importante per quelle che sembrano essere decisioni ormai già prese. La questione rimane comunque quanto mai aperta e un ulteriore appoggio alle richieste di McChrystal potrebbe giungere dal Pentagono. Il Segretario alla Difesa Robert Gates, che ha chiaramente espresso la sua preoccupazione per le sorti del contingente statunitense stanziato in Afghanistan, non ha infatti espresso con la stessa chiarezza la sua posizione in merito alle richieste del comando militare nella regione. L’appoggio di Gates potrebbe rivelarsi ulteriore fonte di pressione sullo staff presidenziale, si potrebbe giungere così a convincere definitivamente la Casa Bianca ad avallare un ulteriore incremento del numero degli effettivi impegnati.

Simone Comi 7 ottobre 2009 [email protected]

Insert COIN

Dopo le dimissioni del generale McKiernan, il nuovo capo delle forze americane in Afghanistan sostiene che il numero di militari non è sufficiente per arrivare alla stabilità. La nuova proposta COIN ha già avuto successo in Iraq, ma sarà dura ripetersi in uno scenario così diverso e intricato.

PIANO DI ATTACCO – La leadership militare statunitense sta discutendo di nuovo il ruolo degli Usa e delle truppe americane nella campagna in Afghanistan. Ciò avviene dopo un nuovo sondaggio che rivela che la maggioranza degli americani non appoggia più la guerra, la prima della lotta contro il terrorismo e che sta per entrare nel 9° anno. Dopo l'elezione di Obama, il Pentagono ha chiesto un'indagine sugli obiettivi politico-militari e sulla strategia in Afghanistan e le dimissioni del generale David McKiernan, la prima di un Capo di forze nel bel mezzo di una guerra dai tempi di MacArthur in Corea cinquant’anni fa. La ragione per il cambiamento? McKiernan è stato toppo "convenzionale" e "conservatore" nel suo pensiero strategico.

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LA STRATEGIA DI MCCHRYSTAL – La scelta di Obama per guidare il suo nuovo piano in Afghanistan è ricaduta sul generale Stanley McChrystal, ex-capo del comando inter-forze per le operazioni speciali. McChrystal ha assunto il comando in Afghanistan il 15 giugno di quest'anno e ha da subito iniziato a ripensare l'uso delle forze americane e della coalizione nella direzione delle forze speciali. McChrystal è aderente alla filosofia strategica del COIN (COunter INsurgency) del Generale David Petraeus, attuale comandante delle forze americane nel Medio oriente e ex-capo delle forze internazionali in Iraq. Come Petraeus, McChrystal userà i soldati per rendere più sicure le zone urbane nel Afghanistan e per dare un senso di stabilità alla gente, necessità prioritaria prima ancora di altre forme di sviluppo politico e economico.

TEMPI LUNGHI – Le difficoltà si presenteranno fra qualche settimana, quando McChrystal darà al Congresso i risultati della sua ricerca. Fonti ben informate dicono che in tutta probabilità il generale chiederà altre truppe -forse 20 mila– da aggiungersi ai 48 mila soldati che sono già stati aggiunti alla campagna negli ultimi tre anni. L'indagine dirà anche che per la vittoria ci vorrà il coinvolgimento delle forze americane in un’ottica di lungo termine, almeno un decennio. Saranno notizie difficili per la sinistra del partito democratico, la fazione tradizionalmente contraria alla guerra, e per il governo Obama, che sostiene attacchi da due fianchi per la sua strategia militare nel Medio Oriente.

Chris Dittmeier 2 settembre 2009 [email protected]

Bomba o nonn bomba?

Dopo la scoperta di una nuova centrale per l’arricchimento dell’uranio in Iran, il mondo si interroga sull’effettiva concretezza della minaccia nucleare Iraniana. Un intervento di Israele potrebbe causare una pericolosa escalation militare nella regione

LA PEGGIORE DELLE IPOTESI – Proviamo un secondo ad immaginare quello che in America chiamerebbero il ‘worst case scenario’, ovvero la peggiore delle situazioni possibili a seguito di un determinato evento: l’Iran riesce finalmente, dopo tanti anni di sforzi, investimenti, trattative, e progetti più o meno segreti, a costruire un ordigno nucleare; monta la testata su uno dei suoi già rodati missili a lunga gittata e lo punta verso Israele. Un giorno questo missile cade su Tel Aviv, incenerendo praticamente all’istante un’intera città e tutta la sua popolazione (quasi 400.000 persone), ed esponendo a radiazioni nocive quasi altri tre milioni di persone che vivono nell’area metropolitana adiacente alla città. In risposta l’aviazione Israeliana carica le sue testate nucleari su aerei da combattimento; i jet decollano, diretti verso Teheran, e la bombardano: sarebbe così che nel giro di poche ore il mondo intero si troverebbe a far fronte ad una crisi nucleare senza precedenti.

SOLO UN’IPOTESI, O UN RISCHIO CONCRETO? – Chiariamolo subito, le nostre sono soltanto ipotesi che potrebbero apparire soltanto nei nostri incubi peggiori. Tuttavia sono anni ormai che siamo abituati a sentire il Presidente della Repubblica Islamica, Mahmoud Ahmadinejad, auspicare alla distruzione di Israele. Unendo quindi queste dichiarazioni ad un programma nucleare che, per quanto lentamente, avanza in maniera inesorabile, la possibilità che una catastrofe del genere si possa effettivamente consumare non può essere considerata del tutto utopica: infatti, nonostante il governo Iraniano abbia ripetutamente dichiarato che il proprio programma atomico sia finalizzato allo scopo civile, e non bellico, la scoperta avvenuta circa due mesi fa di una nuova centrale segreta, situata presso la città di Qom, ha insospettito non poco le leadership mondiali. Non sarebbe inoltre la prima volta che Teheran si fa sorprendere a costruire e a mettere in funzione degli impianti non dichiarati: già nel 2002 un gruppo di opposizione Iraniano rivelò alla stampa la costruzione di una centrale sotterranea altamente fortificata per l’arricchimento dell’uranio a Natanz; appena pochi anni dopo, la CIA scoprì dei progetti per la costruzione di armi e testate nucleari. Sono queste e altre le ragioni che portano quindi numerosi esperti sia in Israele che nel resto del mondo a sospettare che l’impianto di Qom non sia l’ultimo segreto nell’intricata cornice del programma nucleare Iraniano.

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COSA FARE? – E mentre le diplomazie di mezzo mondo lavorano affinché si raggiunga un accordo che accontenti le ambizioni nucleari di Teheran, ma che allo stesso tempo non metta a repentaglio la sicurezza di altri paesi del Medio Oriente, in Israele ci si sta interrogando su come arginare la situazione, nel caso in cui le trattative dovessero fallire la propria missione: infatti, se fino a questo momento è stato usato un approccio indiretto di pressione sui governi occidentali affinché si impegnassero a tenere sotto controllo l’Iran, proprio questi ultimi sviluppi riguardanti la centrale di Qom hanno riaperto una finestra sulla possibilità di un intervento militare finalizzato alla distruzione degli impianti iraniani. Ma quale sarebbe il prezzo da pagare per un’azione simile? Dal punto di vista pratico, hanno calcolato gli esperti, si tratterebbe di uno sforzo militare notevole, nel quale Israele dovrebbe impiegare circa 100 aerei da combattimento al fine di attaccare i quattro siti di Natanz (arricchimento dell’uranio), Esfahan (impianto di conversione) Bushehr ed Arak (reattori nucleari). Tuttavia quello che spaventa di più sono le possibili conseguenze, in quanto un attacco del genere potrebbe avere enormi ripercussioni sulla già instabile polveriera Mediorientale. In altre parole si è arrivati ad un bivio: da una parte c’è la possibilità di un Iran nucleare che, oltre a minacciare Israele, innescherebbe probabilmente una corsa agli armamenti da parte di altri paesi della regione quali Arabia Saudita ed Iraq; dall’altra, un possibile attacco da parte di Israele agli impianti nucleari eviterebbe uno scenario del genere, ma ne aprirebbe un altro forse anche peggiore. È per questo motivo che fino ad ora l’opzione militare sembra ancora una possibilità remota: ma resterà tale, nel caso in cui la ‘peggiore delle ipotesi’ dovesse iniziare ad acquistare concretezza?

David Braha

Vittoria di tappa

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Restyling totale: il Caffè si tira a lucido. Vediamo tutte le novità e le prospettive del sito completamente rifatto. Solo lo stile rimane immutato: raccontare il mondo in maniera professionale e, nello stesso tempo, accessibile a tutti

CAMBIO LOOK – È stata dura, ma ci siamo. Questa versione completamente rinnovata del nostro sito è costata parecchio lavoro, anche a costo di qualche rallentamento negli aggiornamenti nelle ultime settimane, ma finalmente eccoci qui. Ora il Caffè lascia la sua versione da “giovane grande blog”, e vuole diventare maggiormente professionale, con un sito che si riconduce a quello delle testate giornalistiche. Non tutto quello che trovate oggi è perfetto: ci sono dettagli da limare e perfezionare, e altre sorprese arriveranno a breve. Ma già ora potete trovare diverse novità rilevanti.  

NOVITA' – Tra i diversi valori aggiunti di questo nuovo sito, vi segnaliamo la maggior fruibilità dell’archivio (sistema di ricerca, analisi divise non solo tra “Caffè lungo” e “Caffè espresso” ma anche per regioni del mondo, sezione rubriche), le notizie Ansa esteri che scorrono in home page, la possibilità di ascoltare i podcast di tutte le puntate della nostra trasmissione su BMRadio (che da oggi potete seguire direttamente dalla nostra home page), e di “postare” direttamente i contenuti del sito sui social network.  

DA QUI IN POI – Per il Caffè dunque una crescita rilevante, ma è solo una “vittoria di tappa”. Da qui in avanti, anche grazie all’utilizzo di altre tecnologie (i video su tutti: nella sezione “in rilievo” trovare un primo nostro spot), vogliamo tentare di crescere sempre più in quello che è un vero e proprio servizio: poter raccontare – con uno stile immediato e comprensibile a tutti – quanto accade nel mondo, convinti che quanto accade attorno a noi ci riguarda sempre da vicino. Cambia il sito, cambia il logo che vedete qui sopra, non cambia lo stile.

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PERCHE' LO SLOGAN - Lanciamo oggi il nostro slogan “Un mondo di chicchi, un mondo di idee. Il mondo di chicchi lo trovate in home page. Sembrerà all’inizio un “mondo alla rovescia”: è in realtà il primo messaggio che vogliamo lanciare col nuovo sito, e che approfondiremo in una serie di analisi. L’Europa è ancora al centro, è ancora “ombelico del mondo”? Evidentemente no. Anzi, il rischio concreto è che si ritrovi ad un’estremità dell’asse geopolitico che si sta oggi imponendo. Il rapporto controverso e imprescindibile Usa-Cina appare destinato ad occupare un ruolo da protagonista nella scena geopolitica già nel breve-medio termine. Proprio questo abbiamo tentato di raccontare col primo evento pubblico dello scorso 23 febbraio, quando abbiamo presentato a Milano il libro “Repubblica ImPopolare Cinese” del giornalista del Corriere della Sera Fabio Cavalera. Ecco, dunque, il nostro mondo pacifico centrico. Un mondo di chicchi, e un mondo di idee: perché sono tante le lampadine che abbiamo accese per provare a raggiungere i nostri obiettivi (leggetevi la nostra mission e la nostra vision), e riuscire a fare del Caffè uno strumento sempre più utile nel raccontare, in maniera semplice ma professionale, quanto accade nel mondo. E allora, da qui (ri)partiamo, con la speranza e la convinzione che sia solo l'inzio. Buon Caffè a tutti. 

Alberto Rossi

Re-Start

Russia e Stati Uniti protagonisti di questa settimana. I rappresentanti delle due potenze si incontrano per discutere di armamenti nucleari e di cooperazione per il Medio Oriente; intanto Putin continua a coltivare il rapporto con Chavez: in ballo accordi economici di grandissimo rilievo.

Il Primo Minsitro russo Vladimir Putin farà visita al Presidente venezuelano Chavez: le date degli incontri non sono state svelate ma pochi sono i dubbi sulla rilevanza di questi colloqui. E' attesa la firma di parecchi accordi economici, ma l'attenzione è puntata sulle difficoltà che il Venezuela affronta per quel che riguarda la disponibilità di energia elettrica. Sarà importante capire se e come la Russia vorrà sfruttare le difficoltà di Caracas per rafforzare la propria influenza in sud America ed in questo senso eventuali accordi di vasta portata potranno dare indicazioni interessanti.

Hillary Clinton sarà a Mosca per partecipare al summit del Quartetto per il Medio Oriente. Il Segretario di Stato Americano incontrerà il Presidente russo Medvedev e l'occasione sarà sfruttata per trattare altri due temi caldi: il trattato START e, soprattutto, la questione iraniana. I rapporti tra le due potenze sono, come sempre, particolarmente complessi: da una parte Washington cerca l'appoggio di Mosca per bloccare i programmi nucleari dell'Iran, dall'altra programma esercitazioni militari congiunte con la Polonia e la Francia nel Baltico, innervosendo i russi, sempre molto sensibili rispetto alla presenza militare americana vicino ai propri confini.

In Iraq sono attesi, probabilmente per giovedì, i primi risultati delle elezioni tenutesi settimana scorsa. Le reazioni della comunità internazionale potrebbero essere diverse, a partire da quelle degli Stati Uniti e dell'Iran, ma soprattutto bisognerà capire quali saranno le intenzioni e le prospettive di chi uscirà sconfitto da questa tornata elettorale.

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Nel resto del Mondo:

  • Grecia: i Ministri delle Finanze europei si incontreranno giorno 16 per trovare un accordo definitivo sulle misure a favore della Grecia e per valutare gli sforzi ed i piani del Governo greco. I primi provvedimenti concreti dovranno vedere la luce quanto prima.

  • Il Commissario Europeo per le Politiche di Allargamento, Stefan Fule, incontrerà il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, il Ministro per gli Affari Europei Egemen Bagised il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan.

  • In Kirghizstan è alto il rischio di tumulti e disordini: grandi proteste contro Maksim Bakiyev, figlio del Presidente e capo dell'Agenzia per gli Investimenti e lo Sviluppo, accusato di aver gravemente abusato dei propri poteri. Giorno 16 scade l'ultimatum che i contestatori hanno dato a Bakiyev per lasciare il Paese: la situazione potrebbe diventare incandescente.

  • Giorno 20 si terrà la Conferenza EU-Balcani in Slovenia: per la prima volta il Kosovo parteciperà come Stato indipendente e la Serbia ha comunicato che non invierà alcun rappresentante all'incontro.

  • Thailandia: ancora altra la tensione per le proteste organizzate dai sostenitori dell'ex Primo Ministro Shinawatra. Le "Camicie Rosse" continuano le proteste per le strade e le leggi speciali di sicurezza sono ancora in vigore. I dimostranti chiedono lo sciogliemento del Parlamento, le dimissioni del Primo Ministro Abhisit Vejjajiva, che è però supportato da buona parte dell'esercito e nuove elezioni. Al momento gli scontri sono stati pochi ma la tensione è destinatat a salire e l'allerta rimane altissima.

  • In dirittura d'arrivo l'accordo di pace tra il governo del Sudan ed i ribelli del Darfur: l'accordo di massima siglato a febbraio dovrebbe essere finalizzato a breve, sancendo la fine di anni di sanguinose lotte.

  • Anche in Nigeria sono in corso incontri e trattative tra le parti politiche ed i militanti del Delta del Niger. Sono infatti ripresi i colloqui volti a pacificare la tumultuosa regione, dove forti sono gli interessi legati all'estrazione petrolifera.

La Redazione

Lunedì 15 marzo 2010