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Ortega contro i Gesuiti: la confisca che ha scosso il Nicaragua 

In 3 sorsi – In un clima di grande tensione in Nicaragua, dove tutti gli oppositori del Governo Ortega vengono messi al bando, anche i Gesuiti sono stati colpiti dalle accuse di tradimento e terrorismo vedendo espropriata la loro università.

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1. L’INIZIO DEI CONTRASTI CHIESA-GOVERNO

Daniel Ortega diventa Presidente del Nicaragua nel 1985 a seguito della dittatura di Anastasio Somoza, deposto dalla rivoluzione sandinista di cui Ortega era il leader.
Sconfitto nelle elezioni del 1990, 1996 e del 2001, Ortega ottiene nuovamente la presidenza nel 2006 con il partito FSLN (Frente Sandinista de Liberación Nacional) senza più lasciarla. Con il passare del tempo, il Governo assume politiche sempre più dittatoriali, manifestando una crescente insofferenza nei confronti della Chiesa cattolica, considerata simbolo del potere di destra nel Paese e contraria agli ideali sandinisti del Presidente. Negli ultimi 5 anni, vi è stato il divieto da parte del governo di celebrare 3.176 messe, soprattutto nel 2018, anno in cui il report ONU sul Nicaragua ha contabilizzato che almeno 3.144 organizzazioni della società civile sono state chiuse. L’azione principale contro la Chiesa è stata la condanna a 26 anni di carcere contro monsignor Rolando Álvarez nel febbraio 2023, per cui anche il Papa ha espresso la sua preoccupazione. Accusato di “cospirazione contro la sovranità nazionale”, Álvarez è stato uno dei critici più espliciti del regime di Ortega e della sua repressione delle libertà civili e religiose. Nel maggio 2022 aveva anche annunciato che avrebbe iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la violenza della polizia.

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Fig. 1 – Nicaraguensi partecipano a una manifestazione per chiedere la liberazione del vescovo Rolando Álvarez

2. LA REPRESSIONE DI ORTEGA CONTRO I GESUITI

Le politiche repressive contro la Chiesa continuano. Il 23 agosto 2023 il Governo Nicaraguense ha confiscato tutti i beni dell’ordine religioso gesuita. La mossa arriva una settimana dopo la decisione del Presidente di statalizzare l’Università dell’America Centrale in Nicaragua, precedentemente gestita dai Gesuiti, sostenendo che fosse un “centro di terrorismo”. L’Università dell’America Centrale, infatti, è stata il fulcro delle proteste del 2018 contro il regime di Ortega. L’ordine di confisca afferma che i religiosi non avevano rispettato la dichiarazione fiscale. Ortega ha anche dichiarato che la Chiesa Cattolica è la “dittatura perfetta perché non permette alla maggioranza dei cattolici di eleggere il Papa e le altre Autorità religiose. Dopo l’annuncio della scorsa settimana, la congregazione dell’Università ha dichiarato in un comunicato: “Si tratta di una politica del Governo che viola sistematicamente i diritti umani e sembra mirare a consolidare uno Stato totalitario”. Ortega aveva già numerose volte attaccato il clero, definendolo una “mafia” e un’organizzazione antidemocratica, sostenuto dalla consorte Rosario Murillo, soprannominata la “Papessa”, poiché, da vicepresidente in carica dal 2017, è la principale responsabile delle relazioni Stato-Chiesa nel Paese.

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Fig. 2 – Il Presidente nicaraguense Daniel Ortega (a destra), parla ai sostenitori, accanto alla moglie e vicepresidente Rosario Murillo.

3. IL FUTURO DEGLI ORDINI RELIGIOSI IN NICARAGUA

Nel prossimo futuro sembra che l’attacco del regime di Ortega e Murillo contro la Compagnia di Gesù in Nicaragua non abbia intenzione di fermarsi: “Vogliamo essere segno di resistenza”, dice il portavoce dei gesuiti per l’America Centrale, padre José Maria Tojeira. Quest’ultimo, in un’intervista, sostiene che “il Governo non ha prospettive di futuro con questa dittatura molto chiusa che sta promuovendo. Poiché l’università era produttrice di conoscenza e di pensiero critico e aperto, il Governo tendeva a vederla quasi automaticamente come un nemico”, ha detto il portavoce.
Riguardo alla loro missione in Nicaragua, i Gesuiti ammettono che “l’espulsione o la confisca delle proprietà fa sempre parte dell’orizzonte che i religiosi e le religiose presenti nel Paese immaginano”, così come è successo nel settembre 2022 a padre Uriel Vallejos, espulso forzatamente e del quale nessuno ha più avuto notizie. Ma nonostante questo, i Gesuiti insistono che in futuro ciò non impedirà loro di continuare a lavorare.

Isabella De Sinno

Photo by David_Peterson is licensed under CC BY-NC-SA

Ecowas: interventi militari e sfide di un dispositivo di sicurezza regionale

Analisi – Oltre alla promozione della cooperazione tra i propri membri e di un mercato comune, la Comunità economica dell’Africa occidentale (Ecowas) ha assunto negli anni anche funzioni di peacekeeping. Le minacce di intervento dopo il colpo di Stato in Niger e i rivolgimenti geopolitici recenti evidenziano però le difficoltà di questo compito, costringendo a interrogarsi sull’efficacia del suo dispositivo di sicurezza regionale.

Democrazia e disinformazione: il pericolo dell’Intelligenza Artificiale

In 3 sorsi Il palcoscenico per la campagna elettorale USA 2024 è quasi pronto, e mentre spettatori e critici cercano di prevedere quali saranno gli attori principali, un nuovo ruolo continua ad assumere importanza e a confondere le parti: l’intelligenza artificiale.

Khaled al-Qaisi: l’arresto dell’italo-palestinese di cui nessuno parla

Caffè ristretto – Khaled al-Qaisi, studente italo-palestinese, è stato arrestato dalle autorità israeliane senza accuse lo scorso agosto, mentre varcava il confine con la Giordania. Nonostante gli appelli della famiglia, il Tribunale ha prolungato l’arresto fino al 14 settembre e poi fino al 1 ottobre.

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Khaled al-Qaisi è uno studente e traduttore italo-palestinese dell’Università La Sapienza di Roma, co-fondatore del Centro Documentazione Palestinese, un’associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia. Il 31 agosto si è recato al valico di Allenby, sul confine tra Cisgiordania e Giordania, da cui avrebbe poi dovuto fare ritorno a Roma, ma al controllo dei bagagli è stato arrestato.
Khaled viaggiava con la moglie, Francesca Antinucci, e il figlio di 4 anni, con i quali si era recato a Betlemme per trascorrere le vacanze con la sua famiglia che risiede in Cisgiordania, nel campo profughi di Azza. In una lettera aperta, la moglie di Khaled racconta del fermo arrivato al momento del controllo dei documenti e dei bagagli, e del suo allontanamento dal marito, il quale è stato portato via senza fornire alcuna motivazione. A Francesca sono state rivolte una serie di domande sulla sua vita privata e soprattutto sull’orientamento politico del marito, prima che lei e il figlio venissero fatti entrare in Giordania senza soldi, né cellulare, capaci di raggiungere l’ambasciata italiana di Amman solo nel tardo pomeriggio grazie all’aiuto di alcune persone del posto.
La loro presenza al varco era dovuta al fatto che Khaled, cittadino palestinese, poiché nato su suolo cisgiordano, secondo la legge israeliana, per raggiungere il suo Paese di nascita è costretto a far scalo su suolo giordano, invece del più vicino aeroporto di Tel Aviv.
Lo scorso 7 settembre, lo studente italo-palestinese è stato convocato per un’udienza al Tribunale israeliano di Rishon Lezion, vicino Tel Aviv, dove è apparso in buone condizioni e accompagnato dall’avvocato arabo-israeliano Ahmed Khalifa. Durante l’udienza, il procuratore israeliano ha rivolto al ricercatore diverse domande sulla sua permanenza in Cisgiordania e, al termine della stessa, ha decretato il prolungamento del periodo di confinamento fino al 14 settembre, quando una nuova udienza ha rinnovato l’arresto per altri sette giorni e poi fino al 1 ottobre.
Intanto, insieme a Francesca e Lucia – madre di Khaled – che chiedono “a chiunque ne abbia il potere” di esercitare “tutte le pressioni necessarie per la sua celere liberazione”, diversi esponenti politici italiani si sono mobilitati per riportare la notizia all’attenzione della premier Giorgia Meloni e del Ministro degli Esteri Tajani. Il leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha scritto al capo della Farnesina per conoscere quali siano le modalità che intende adottare per tutelare al-Qaisi e assicurare che sia sottoposto a giusto processo, nonché che le condizioni di detenzione siano conformi agli standard internazionali. Anche il M5S si è espresso tramite la deputata Stefania Ascari, che dice «No a un altro caso Zaki». Più dura è, invece, l’accusa di Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, coordinamento di Unione Popolare, denunciando che «in quella che ancora viene spacciata come la ‘sola democrazia mediorientale’ è detenuto dal 31 agosto scorso un cittadino italo palestinese, stimato ricercatore universitario in Italia, colpevole di sostenere i diritti del suo popolo».
Acerbo, come molti, pone l’accento sul comportamento decisamente poco democratico di Israele, soprattutto in un momento in cui è la sua stessa popolazione a non definirla tale, mentre protesta nelle piazze contro la riforma della legge giudiziaria in atto da Netanyahu.

Alessia Mazzaferro

Immagine di copertina: “Flying check point in the Old City.” by ISM Palestine is licensed under CC BY-SA

Giorgio Napolitano e la sua politica estera

Giorgio Napolitano è stato l’11º Presidente della Repubblica Italiana, dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015, il primo eletto per due mandati consecutivi. Il Presidente emerito è deceduto il 22 settembre 2023.

Nel 2015, alla fine del suo mandato, la nostra redazione aveva preparato un ebook che ripercorreva la sua politica estera. Vi riproponiamo questo nostro lavoro, anche come tributo a un Presidente che molto si è speso in politica estera a tutela del Paese.

L’ebook è disponibile gratuitamente per i soci, i collaboratori e i sottoscrittori. Per gli altri lettori è possibile scaricarlo registrandosi.

Nell’arco dei nove anni al Quirinale, Napolitano ha rafforzato il proprio prestigio internazionale, spesso rappresentando un punto di riferimento all’estero in periodi di grave crisi politica interna. Il dibattito italiano sulla politica globale, già ridotto al minimo, ha subìto infatti un’ulteriore ridimensionamento sotto le spinte dell’emergenza economica.

Allo stesso tempo, tuttavia, fuori dai confini si alternavano nei confronti dell’Italia dubbi sulla tenuta dell’ordinamento e pressioni per imboccare strade talvolta predeterminate.

Ampliando il proprio ruolo Napolitano ha cercato di porsi quale interlocutore sicuro, sia per la stabilità e la lunghezza del mandato presidenziale, sia grazie al riconoscimento internazionale già acquisito nell’arco del tempo, al netto di una classe politica che non riusciva a fornire garanzie all’immagine dell’Italia.

Il Marocco e la diplomazia degli aiuti

In 3 sorsi – Potrebbero servire anni per porre rimedio ai danni causati dal terremoto in Marocco e, nel mentre, diversi attori internazionali si sono fatti avanti. Questa volta però, le maggiori potenze sembrano essere state escluse dalla diplomazia degli aiuti.

Burkina Faso, Mali e Niger: la nuova alleanza militare nel Sahel

Analisi Il 16 settembre le giunte golpiste di Burkina Faso, Mali e Niger hanno firmato la Carta del Liptako-Gourma, che istituisce l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES). L’obiettivo è quello di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di assistenza reciproca contro le sfide comuni. Un segnale della frammentazione delle alleanze sugli obiettivi di sicurezza nella regione.

Gli ultimi due mesi di Wagner: dal dossier bielorusso alla morte di Prigozhin

Analisi – La permanenza della Compagnia Wagner in Bielorussia non è durata molto. Le forze di Prigozhin hanno fatto ritorno verso la Russia, a poco meno di un mese dalla ricollocazione del gruppo mercenario a Minsk. In seguito, l’inaspettata morte di Prigozhin stesso, avvenuta in circostanze tutt’altro che chiare, ha aumentato l’incertezza sul destino dell’organizzazione. Ma con la quasi certezza che ottenere gli stessi risultati senza Prigozhin non sarà possibile, soprattutto nel teatro di guerra russo-ucraino.

Bielorussia: la nuova “cortina di ferro” dell’Europa

Gli specialiPrima parte di un lungo reportage di Christian Eccher dalla Bielorussia, realizzato nel corso dell’estate. Stretto tra Occidente e Russia, il Paese appare sempre più isolato mentre la repressione del regime di Lukashenko non riesce a mascherare fratture e contraddizioni interne.

Vi proponiamo qui in anteprima la prima parte del reportage, disponibile come contenuto esclusivo per i soci e gli iscritti del Caffè Geopolitico, oppure con un contributo editoriale.

LITUANIA: FIERI BOSCHI E SENTIMENTI AMARI

Fra la Bielorussia e l’Occidente ci sono solo due passaggi di frontiera aperti: quello di Grodno, al confine con la Lituania, e quello fra Brest e Terespol, in Polonia. Tutti gli altri sono stati chiusi per paura che i soldati della Wagner si infiltrino fra coloro che, quotidianamente, entrano nell’Unione Europea. Per andare da Bialystok, in Polonia, e Grodno, il microbus impiega circa 12 ore: deve raggiungere la Lituania, a 60 km da Vilnius prendere la strada dei boschi e dirigersi verso sud. Alla frontiera, i mezzi pubblici aspettano disciplinati il proprio turno per 6 ore, le automobili fra le 12 e le 24 ore.

A metà strada fra Bialystok e Grodno, in Lituania, il motore del minibus, vecchio e ammaccato, si ingolfa. Il mezzo arranca, prosegue a singhiozzo, fra abbrivi e brusche soste, fino a fermarsi del tutto. Intorno, poche case, un lago circondato da un bosco di abeti e il silenzio. È sera. Al margine sinistro della strada, una locanda: pochi clienti, giovani, seduti su panche di legno nel cortile che guarda al lago. I ragazzi, appena vedono l’autobus con targa bielorussa, lanciano strali e parole incomprensibili verso i passeggeri che nel frattempo sono scesi dal mezzo. Mi avvicino allo specchio d’acqua, ordino qualcosa da mangiare e alcuni degli avventori, con un boccale di birra in mano, visibilmente brilli, mi chiedono a che nazionalità appartenga. Rispondo che sono italiano e un altro, in maniera provocatoria, domanda: “Vuoi farmi credere che tutti gli altri che viaggiano con te sono italiani?”. Affermo che sono bielorussi; a quel punto, i ragazzi iniziano a insultare, sputano in direzione del pullmino. Mi sento in colpa per aver detto di essere italiano: la cittadinanza può essere un discrimine, un criterio per decidere chi si possa sedere a un tavolo a mangiare e chi no? Invito i passeggeri che guardano increduli a sedersi e a cenare con me. Con un cenno della testa, ringraziano e rifiutano. Rimangono nascosti dietro al microbus, fino a quando, da Bialystok, non giunge un furgone più moderno e confortevole. Si riparte per Grodno, con l’amarezza della consapevolezza che i popoli europei sono fra loro nuovamente nemici.

Fig. 1 – La Cattedrale di San Francesco Saverio a Grodno | Foto: Christian Eccher

GRODNO, LA RUSSIA E L’OCCIDENTE

Grodno è una città multietnica, abitata principalmente da bielorussi e polacchi. Da secoli, le due nazioni e i due popoli si intrecciano e vivono in completa simbiosi. Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, i rapporti fra Minsk e Varsavia si sono fatti sempre più tesi. Nonostante la gente comune continui a vivere normalmente, senza odi e senza rancori, a livello istituzionale le relazioni fra i due Paesi sono ai minimi storici. La Bielorussia cerca anche di cancellare i legami storici con la Polonia: al museo del poeta Maksim Bogdanovich, un’antica ed elegante casa in legno a un piano nel centro della città, è arrivato l’ordine di eliminare tutte le fotografie e i testi che fanno riferimento alla scrittrice Eliza Orzeszkowa, di nazionalità polacca ma a tutti gli effetti cittadina di Grodno. Anche i notiziari di tutte le emittenti televisive accusano ininterrottamente la Polonia e la Lituania di armare le frontiere e di nutrire sentimenti di inimicizia nei confronti della Bielorussia. Il Presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, quotidianamente in visita a fabbriche e aziende agricole, sostiene che il suo Paese è pronto anche a difendersi, in caso di attacco. Nello stesso tempo, però, in un gioco di equilibrio per certi versi strabiliante, invita l’Occidente al dialogo.

Fig. 2 – Grodno: la casa natale di Eliza Orzeszkowa | Foto: Christian Eccher

LA POLITICA DELLE DUE SEDIE (SEMPRE PIÙ SCOMODE)

Il discorso tenuto dal Presidente l’11 agosto scorso all’aeroporto di Minsk, ha stupito non solo i media stranieri, ma anche l’opinione pubblica interna. Lukashenko era infatti in visita agli hangar che ospitano i velivoli della compagnia nazionale Belavia e ha sostenuto che la Bielorussia non può assolutamente permettersi di perdere i rapporti diplomatici ed economici con l’Occidente. “Lukashenko si trova fra l’incudine e il martello – dice E.P., economista di Brest – Da un lato deve fare ciò che dice il Cremlino, perché dipende in tutto e per tutto da Mosca. Dall’altro sa che la rottura definitiva con l’UE segnerebbe anche la fine dell’indipendenza della Bielorussia. Il Paese vive infatti degli scambi economici con i “nemici” dell’Ovest, scambi che ancora esistono nonostante le sanzioni. Da quando lituani e polacchi hanno chiuso quasi tutti i passaggi di frontiera, le autorità di Minsk hanno già perso la grande quantità di denaro che guadagnavano con il contrabbando, soprattutto di sigarette. Intendiamoci, anche polacchi e lituani traevano profitto da questi scambi: con la chiusura delle frontiere, i nostri vicini ci fan capire che loro possono vivere anche senza questi commerci; loro, non noi.” Aggiunge E.P.: “C’è poi anche un’altra ragione Le merci che dai Paesi CIS vanno in Europa e viceversa, passano anche per la Bielorussia. Se Varsavia e Vilnius dovessero chiudere le frontiere, la Bielorussia si troverebbe davvero a essere isolata: i camion e i treni per la Polonia (quelli merci possono passare il confine, quelli passeggeri sono sospesi, nda) troverebbero strade alternative e a quel punto a noi, senza royalties e diritti di passaggio, rimarrebbe una sola strada per sopravvivere economicamente: l’entrata nella Federazione Russa, che nessuno vuole, neanche Lukashenko”. In effetti, il Presidente bielorusso è finora riuscito a bilanciare le esigenze della Russia e quelle dell’Occidente ma sembra che questa politica mostri sempre più le corde, soprattutto dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina: l’opinione pubblica interna, soprattutto i giovani, non appoggia più le autorità di Minsk, che governano solo grazie alla repressione politica. Il fatto che la Bielorussia abbia permesso e permetta ai soldati russi di usare il proprio territorio a piacimento e che adesso ospiti i mercenari della Wagner e le armi nucleari di Mosca, dimostra poi che il Paese è sempre meno autonomo. Nessuno crede alle affermazioni del Presidente, il quale sostiene che la Russia è presente solo per aiutare e che la Wagner e le armi nucleari servano esclusivamente a rafforzare l’esercito nazionale, che da solo non potrebbe affrontare un conflitto con la NATO.

Christian Eccher

Photo by jackal007 is licensed under CC BY-NC-SA

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