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Il ruolo centrale dell’oro nella guerra in Sudan – Speciale Sahel

Speciale Sahel Il 15 aprile scorso, dopo mesi di segnali di tensione, in Sudan è scoppiato il conflitto tra l’esercito regolare e le Rapid Support Forces. Nella lotta interna per il potere l’economia dell’oro svolge il ruolo centrale di principale fonte di valuta estera e rende il Paese un centro di traffici illeciti e influenze straniere.

L’articolo è parte di uno speciale sul Sahel a cura del desk Africa subsahariana.

LE MANI SULLE MINIERE

Il conflitto armato in Sudan tra le Rapid Support Forces (RSF) e l’esercito regolare continua ormai da quattro mesi. Sono migliaia le persone uccise, più di un milione quelle uscite dal Paese e quasi tre milioni e mezzo gli sfollati interni, secondo le Nazioni Unite. Resta il rischio di influenzare le sorti dei Paesi limitrofi ed è ormai chiaro quanto il confronto sia dettato dall’importanza di “imperi” commerciali e reti clientelari che plasmano l’economia politica del Paese. Mohamad “Hemetti” Hamdan Dagalo, leader delle RSF e già guida delle milizie Janjaweed nelle guerre contro gli insorti in Sud Sudan e Darfur negli anni Duemila, è diventato una delle figure dominanti nella politica sudanese già da prima che le proteste di massa rovesciassero il regime autoritario di Omar al-Bashir nel 2019, surclassando i comandanti rivali, sino ad arrivare al confronto aperto con il Presidente al-Burhan e l’esercito di Khartoum il 15 aprile 2023. All’emergere del Generale Hemetti ha contribuito soprattutto il controllo delle miniere sudanesi, tra cui quella di Jebel Marra in Darfur, e il dominio sull’economia dell’oro e sul contrabbando tra Libia e Sahel. Un business, quello dell’oro, che ha visto un boom nel periodo post-Covid e sta diventando centrale anche per le giunte golpiste di Burkina Faso, Mali e Guinea. È soprattutto attraverso questo metallo nobile che Hemetti è riuscito nel tempo a costruire alleanze in cambio di denaro, armi e potere grazie alla propria abilità di sfruttare le rivalità tra grandi potenze e sistemi economici regionali, emergendo infine come attore internazionale autonomo.

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Fig. 1 – Un rappresentante della Bank of Sudan mostra un lingotto d’oro proveniente da un carico destinato all’esportazione, luglio 2023

LA SOSTITUZIONE DELL’ORO NERO

La corsa all’oro in Sudan ha avuto un grande impulso intorno al 2010, con la scoperta di diversi giacimenti nel Darfur settentrionale, proprio nel momento in cui al Paese veniva a mancare il petrolio del Sud, dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011. Già nel settembre 2012, Omar al-Bashir apriva la prima raffineria nella zona di guerra di Jebel Amir e negli anni la produzione aurea ha visto una crescita esponenziale. Solo nel 2021 le esportazioni hanno superato gli 1,7 miliardi di dollari e nel 2022 è stato raggiunto il record di 18 tonnellate di produzione, una conseguenza della volontà del Governo di rafforzare le entrate in risposta alla perdita di assistenza finanziaria estera dovuta al colpo di Stato dell’ottobre 2021. Seppure il Governo abbia ripetutamente cercato di esercitare un maggiore controllo sulle esportazioni, alcune stime affermano che ben oltre la metà dell’oro viene contrabbandato all’estero, dove viene poi riciclato. Grandi compagnie hanno stabilito operazioni di estrazione negli Stati del Nord, del Mar Rosso, del Kordofan occidentale e del Nilo Azzurro. Il Sudan vanta i più grandi giacimenti minerari precambriani ancora non censiti in Africa e, mentre la maggior parte delle riserve rimane sottosviluppata e la produzione ad esse legata è ancora artigianale, in anni recenti il Paese ha aperto il proprio mercato dell’oro – prima una sorta di monopolio di Stato – per ottenere valuta estera. Questa parabola ha portato il Sudan a diventare il terzo più grande produttore di oro in Africa, dopo Ghana e Sud Africa. Le destinazioni principali di questo minerale sono oggi gli Emirati Arabi Uniti, con circa 3 miliardi di dollari l’anno; l’Italia, attiva soprattutto con Italpreziosi nella miniera di Gabgaba a nord, con circa 26,5 milioni di dollari; e la Turchia, con poco più di 2 milioni. È per l’appunto l’apertura di questo mercato che ha portato anche Hemetti, attraverso la compagnia di famiglia Al Gunade, a esportare circa 16 miliardi di dollari di oro all’anno verso gli Emirati Arabi Uniti. Un’attività che gli ha permesso di arricchirsi e finanziare le sue milizie.

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Fig. 2 – Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemetti”, capo delle Rapid Support Forces

KHARTOUM-MOSCA-DUBAI

Secondo un’inchiesta della CNN, nel Paese sarebbe inoltre da tempo attiva la Meroe Gold, società dell’ormai famoso Evgenij Prigožin, che utilizza come copertura la sudanese Al Solag per evadere le sanzioni impostegli già nel 2020 e così facendo comprare oro dai minatori artigianali per poi esportarlo nei mercati esteri. Il regime di sanzioni imposto al Sudan dagli Stati Uniti ha avuto infatti l’effetto di congelare molti investimenti occidentali e la Russia sta provando a riempire il vuoto. Mosca ha iniziato a impegnarsi maggiormente in Sudan nel 2017, quando l’allora Presidente al Bashir venne ospitato da Vladimir Putin al Summit di Sochi. Nello stesso anno Hemetti, allora vicino ad al Bashir, strinse rapporti con i mercenari del gruppo Wagner guidati da Prigožin, che già in Libia e Repubblica Centrafricana controllava miniere e traffico di armi. Sempre Hemetti a inizio 2022, alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, si è recato a Mosca per chiedere risorse militari in cambio della discussa base navale sul Mar Rosso e dell’accesso alle miniere. Ma in questo rapporto tra Sudan e Russia si inserisce anche Dubai. Già nel 2020 la US Defense Intelligence Agency ha sostenuto che gli Emirati Arabi Uniti finanzierebbero le operazioni del gruppo Wagner, e a gennaio 2023 Washington ha sanzionato la Kratol Aviation, con sede proprio a Dubai, accusata di trasportare armi e mercenari tra Libia, Mali e Repubblica Centrafricana. Gli stessi Emirati hanno da tempo un ruolo di primo piano in Africa, soprattutto per ciò che riguarda il settore minerario, come si evince anche dal recente caso in Zimbabwe. I dati del database Comtrade delle Nazioni Unite mostrano infatti che la quota africana delle importazioni di oro di Dubai è salita dal 16% al 50% tra il 2006 e il 2016 e il commercio non petrolifero tra Dubai e gli Stati africani ha raggiunto i 252 miliardi di dollari tra il 2011 e il 2018, rendendo l’Emirato uno dei partner commerciali più importanti, tra le 10 maggiori fonti di investimento nel continente (in gran parte relative al settore minerario). Il commercio di oro rappresenta circa il 25% dell’economia degli Emirati Arabi Uniti e la mancanza di pressioni nazionali e internazionali hanno fatto sì che le élite emiratine siano state in questi anni libere di resistere alle riforme.

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Fig. 3 – Conferenza stampa congiunta tra il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, e l’allora ministra degli Esteri sudanese Mariam al-Mahdi, Mosca, luglio 2021

UN MINERALE STRATEGICO

Il problema principale per alcuni Paesi che dovrebbero richiamare Dubai alle proprie responsabilità è la necessità di quegli stessi Paesi di avere un alleato affidabile nel Golfo, il che si traduce nel non metterne in pericolo gli interessi (siano essi leciti o illeciti). Questo determina la sostanziale difficoltà delle principali potenze che si confrontano sul piano globale di supportare una delle due parti in conflitto in Sudan, ma anche mediare credibilmente per la pace. Il Sudan è infatti un anello fondamentale nella geopolitica delle regioni del Sahel e del Corno d’Africa e la sua posizione di crocevia tra continente africano e Medio Oriente lo rendono un Paese piuttosto strategico, dove si incontrano interessi di politica estera diversi: della Russia, intenzionata a proiettare ulteriormente la sua influenza in Africa attraverso la base navale sul Mar Rosso; degliStati Uniti, decisi a non perdere il ruolo di principale potenza mondiale promotrice di democrazia e stabilità; della Cina, secondo partner commerciale del Sudan, interessata alla pace nei propri mercati; e dell’Arabia Saudita, per cui il Sudan è l’ennesimo banco di prova diplomatico, oltre a rivestire un ruolo strategico per la sicurezza alimentare del Regno e la stabilità nel Mar Rosso. Tutti Paesi che hanno la volontà di mantenere buone relazioni con gli Stati del Golfo, profondamente implicati nell’economia dell’oro e di conseguenza nella guerra. Questo elemento economico diventa così un fattore spinoso ma cruciale, in quanto richiama gli equilibri del Medio Oriente e la necessità di buone relazioni tra i Paesi arabi e Israele, ma altresì il controllo commerciale dallo stretto di Bab el Mandeb al Canale di Suez. Tornando al piano interno, nella sua attuale guerra contro l’esercito sudanese il destino di Hemetti dipende dalla capacità dei suoi partner di spostare il denaro di cui ha bisogno per sopravvivere nel sistema bancario internazionale e dalla volontà delle sue truppe sul campo di prendere e mantenere il terreno a Khartoum. Su quest’ultimo punto, a causa di questo tipo di accesso alle risorse è difficile pensare a una smobilitazione da parte dei soldati delle RSF, che vedono la possibilità di ottenere prestigio e potere. La pace per Karthoum e la sua popolazione, tradita dalle promesse democratiche del dopo al Bashir, transita quindi anche dal settore minerario che finanzia le guerre dal Sahel all’Ucraina, passando per il Sudan.

Daniele Molteni

Gli articoli dello speciale sul Sahel a cura del desk Africa subsahariana:

Photo by David_Peterson is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • Mentre il conflitto armato continua, emerge il ruolo cruciale dell’economia politica del Paese e del controllo sulle risorse del generale Mohamad Hamdan Dagalo.
  • Con la secessione del Sud Sudan e la perdita di risorse petrolifere, la produzione di oro è aumentata esponenzialmente e così il suo contrabbando all’estero.
  • Le miniere controllate dalle Rapid Support Forces rappresentano una risorsa strategica che permette l’ingresso di armi, con la complicità della Russia e degli Emirati Arabi Uniti.
  • Gli interessi in gioco e l’importanza strategica del Sudan nel confronto tra grandi potenze rendono complesso richiamare alla responsabilità e trovare una efficace mediazione per la pace.

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Daniele Molteni
Daniele Molteni

Nato in provincia di Como, ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee e quella magistrale in Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano, con tesi relative alla Responsibility to Protect e al terrorismo internazionale. Le sue aree di interesse sono Africa e Medio Oriente, con un particolare focus su questioni legate a sicurezza e rule of law. Dal 2018 è redattore di La Beula, rivista culturale indipendente della Brianza comasca, e in passato ha scritto per alcune Onlus specializzate in politica internazionale e diritti umani. È appassionato di cinema d’autore e libri, principalmente saggistica e reportage.

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