In 3 sorsi – Dalla Dottrina Monroe del 1823 al nuovo ciclo di Trump, passando per la Guerra Fredda, gli anni di Clinton, Bush ed Obama, l’America Latina è stata fondamentale per gli Stati Uniti e gli equilibri mondiali
1. DALLA DOTTRINA MONROE ALLA DOTTRINA CLINTON
Sin dall’Ottocento, gli Stati Uniti si sono impegnati a costruire l’isola geopolitica che sono oggi: un territorio immenso che tocca due Oceani ad Est ed Ovest, protetto a Nord e Sud da necessarie relazioni positive con i vicini, Canada e Messico. Per questo, il gigante nordamericano ha lavorato sin dal XIX secolo per cancellare o contenere l’influenza esterna sul suo continente.
Nascono in questo periodo i pilastri della politica estera statunitense del XX secolo: il No Transfer Principle, la Dottrina Monroe, il Manifest Destiny, l’America Latina e i Caraibi come il cortile di casa. Partendo da questi, gli Stati Uniti sono entrati in guerra con il Messico tra 1846 e 1848, ampliando moltissimo il proprio territorio e privando il Messico di un terzo del suo. Poi, il via al secolo degli interventi a Puerto Rico e Cuba e, successivamente, della difesa ad ogni costo contro l’influenza sovietica nella regione.
In seguito, la caduta del regime sovietico e l’improvvisa assenza di un contrappeso internazionale, l’ondata di democratizzazione e la necessità di una nuova strategia. Sono gli anni ’90, nasce la Dottrina Clinton: la democrazia come vaccino contro le guerre, e l’interventismo statunitense circoscritto solo quando e dove necessario – ad esempio, ad Haiti nel 1994. Un soft power che doveva cancellare l’immagine imperialista degli Stati Uniti, nuovo leader del mondo libero e democratico. Washington ha quindi dato un grande supporto alle nuove istituzioni democratiche latinoamericane e ha impostato nuovi accordi economici che hanno rinforzato l’integrazione regionale.
Fig. 1 – Barack Obama e Mauricio Macri a Buenos Aires, nel 2016
2. BUSH, OBAMA E IL PRIMO ANNO DI TRUMP
Torniamo per un momento al concetto dell’isola geopolitica. Gli Stati Uniti si sono costruiti strategicamente, seguendo una logica di difesa e sicurezza che ha permesso di tenere il loro territorio nazionale al riparo dalle guerre. Escludiamo da questo ragionamento la Guerra di Secessione, e osserviamo gli Stati Uniti come li conosciamo oggi partendo da due date: il 7 dicembre 1941, l’attacco a Pearl Harbor, e l’11 settembre 2001. Si tratta di scenari completamente diversi – guerra simmetrica il primo, guerra asimmetrica il secondo – che condividono tuttavia un elemento centrale: l’attacco agli Stati Uniti sul territorio nazionale. Togliamo per un attimo i panni di europei, proviamo a vestire quelli di una nazione che si è costruita sul mito di una terra promessa abitata da un popolo eletto che ha come obiettivo la realizzazione e la felicità individuale, che si riflettono poi sulla grandezza di uno Stato libero, giusto, sicuro. Questo quadro è rotto bruscamente da episodi come Pearl Harbor o l’attacco alle Torri Gemelle. Se a livello sociale si tratta di sconvolgimenti su larga scala, a livello politico sono eventi capaci di cambiare totalmente la direzione della politica internazionale. Pearl Harbor aveva spinto gli Stati Uniti a entrare nello scenario della Seconda Guerra Mondiale, l’11 settembre spinse George W. Bush in Iraq e Afghanistan.
Che c’entra questo con l’America Latina? Centro e Sud America sono fondamentali per la sopravvivenza dell’isola geopolitica perché la proteggono. Con l’intervento massivo in Medio Oriente, Bush Jr. ha spostato l’attenzione dalla regione e ha creato un vuoto geopolitico che altre potenze hanno provato a colmare. Il Venezuela di Hugo Chávez, per esempio, che forte della crescita economica ad inizio secolo ha tentato di creare un fronte latinoamericano che si opponesse allo strapotere di Washington. La Cina, che ha potuto fare affari d’oro con la regione e posizionare nuove pedine sul suo goban. Di fronte a questa nuova scacchiera, seppur concentrandosi sulle relazioni con l’Asia-Pacifico, Barack Obama ha tentato di recuperare il terreno perso con l’amministrazione Bush. È così che ha teso la mano a Cuba, ha riavvicinato Washington e Buenos Aires e ha spinto gli Stati della costa pacifica dell’America meridionale nel Trans-Pacific Partnership (TPP) da cui era esclusa la Cina. Accordo che poi è stato fortemente minato da Trump, quando ha deciso di ritirare la partecipazione statunitense, poco dopo essersi insediato.
E Trump, come si è mosso in America Latina? Da gennaio 2017, la Casa Bianca non sembra essere particolarmente interessata alla regione. Trump ha ottenuto l’avvio delle trattative per la rinegoziazione del NAFTA, ha rivisto la posizione di Obama con Cuba, con la quale è probabile una nuova crisi diplomatica, e ha delle posizioni in tema di migrazione che offendono la sensibilità dell’intera regione. Soprattutto, il Messico del debole Peña Nieto è stato messo in seria difficoltà dalle chiusure di Washington, probabilmente anche per farlo arrivare al tavolo del nuovo Nafta in condizioni di subalternità.
Fig. 2 – Il presidente Trump firma la nuova politica statunitense nei confronti di Cuba, nel giugno 2016
3. PROSPETTIVE PER IL FUTURO
Trump non è uno stratega o un esperto di politica internazionale, e questo è evidente nell’approccio che riserva alle Americhe. Quest’attitudine potrebbe costare molto cara sul lungo periodo. Gli Stati Uniti sono ancora un partner economico e militare di primaria importanza per l’America Latina, ma devono fare i conti con la crescente presenza cinese e con il ritorno russo. Infatti, Cina e Russia sono impegnate in un strategie geopolitiche e geo-economiche di non poco conto. Se l’amministrazione Trump manterrà la posizione di questi primi dodici mesi, è probabile che la linea di protezione dell’isola geopolitica statunitense inizi una progressiva erosione. Considerando la profonda integrazione che esiste con l’America Centrale e la profonda dipendenza dei Paesi che la compongono nei confronti degli Stati Uniti (con l’eccezione cubana), è probabile che la regione centrale rimanga un solido baluardo per Washington.
La regione meridionale, invece, potrebbe ulteriormente avvicinarsi alla Cina, che prenderebbe progressivamente il controllo di un mercato ricchissimo a pochi passi dal territorio statunitense; e potrebbe fare l’occhiolino alla Russia, che sta tornando a Cuba e si schiera al fianco del Venezuela. Pechino vede nell’America centrale un’ottima fonte di approvvigionamento di cibo di qualità a costi contenuti e ciò spiega anche l’interesse ad un posizionamento fisico nell’area.
Infine, ironia della sorte: la Cina ha iniziato a sviluppare una propria dottrina Monroe mentre gli Stati Uniti hanno visto diminuire la loro influenza nella regione. La partita è ancora da giocare e molto dipenderà dalla direzione politica che prenderà l’America Latina, che attualmente sembra spostarsi nuovamente a destra, e dalla strategia adottata dagli Stati Uniti. È dunque lecito chiedersi: dopo l’Asia-Pacifico, Stati Uniti e Cina si contenderanno l’America Latina?
Elena Poddighe
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
La Dottrina Clinton si basava sul concetto di ampliamento (enlargement), in contrapposizione con quello di contenimento (containment) su cui si era basata la strategia della Guerra Fredda. L’enlargement si sviluppava su quattro aspetti: il rinforzo delle maggiori democrazie di mercato, lo sviluppo del mercato libero e delle democrazie nei Paesi in via di sviluppo, la difesa dagli attacchi delle nazioni che continuavano ad essere ostili alla diffusione della democrazia, e l’aiuto umanitario.[/box]