mercoledì, 17 Dicembre 2025

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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

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Soldi, potere e nemici

Caffè Europeo – Sebbene il nostrano Roberto Rosetti, per anni arbitro dei più rilevanti scontri calcistici italiani ed europei ed ora strapagato responsabile arbitri della Federcalcio russa, ritenga che la nazionale del paese più vasto del mondo non abbia nulla da invidiare alle più blasonate rappresentative di Germania e Spagna, un rapido sguardo alla rosa della squadra che si presenterà ai campionati europei ed allo stato di salute (sul campo e non) del movimento calcistico russo lasciano presagire l’opposto, nonostante il successo all’esordio contro la Repubblica Ceca. Lontani dall’intento di “gufare”, tentiamo qui di spiegarvi i perché

 

IL PARADISO DEI POTENTI – Il calcio russo è popolato da oscuri personaggi legati a doppio filo ai più ramificati intrighi energetici e politici, intrighi che costituiscono le fondamenta dello stesso sistema-paese e che a questo garantiscono, in un nerissimo abisso di corruzione, clientelismo e rapporti personali di forza, fiducia e convenienza, la provvisoria sopravvivenza. Le facce del pallone post-sovietico sono quelle di Suleiman Karimov, di Leonid Fedun, dei fratelli Fursenko, di una moltitudine di comprimari e palafrenieri.

Karimov, affettuosamente soprannominato il “Ramzan Kadyrov daghestano” (dal nome del governatore della Cecenia tanto nemico del suo popolo e tanto caro a Vladimir Putin), ricchissimo oligarca che tutti noi amanti del gossip conosciamo per aver distrutto, nel 2006, la sua Ferrari Enzo mentre scorrazzava con una giovanissima modella sulla Promenade des Anglais di Nizza, è in realtà un uomo potentissimo detenente notevoli partecipazioni azionarie in colossi pubblici dell’economia russa come Gazprom (prima nel mondo per quantità di gas estratto e distribuito), Sberbank (prima banca russa) e Polymetal (gigante dell’estrazione di oro e argento) e la poltrona di rappresentante del Daghestan nel Senato Federale russo. Ecco, mentre nella problematica Regione caucasica a nord dell’Azerbaigian la criminalità dilagava e la gente si impoveriva drammaticamente, Karimov, forse ispirato dal sempreverde “panem et circensem” (nel caso di specie più circensem che panem) dell’Imperatore Tito, acquistava la squadra di calcio del capoluogo, l’Anzhi Machackala, con lo scopo di farne uno dei centri di potere del pallone russo ed europeo. Oggi l’Anzhi, quinta nell’ultimo campionato, non ha un vivaio né investe in giovani giocatori russi e stime attendibili certificano che, con lo stipendio annuale dell’ultimo folle acquisto Samuel Eto’o (20.5 milioni di euro) si potrebbero mettere a norma le fatiscenti e pericolanti scuole daghestane che, invece, non subiscono interventi di rilievo dai tempi dell’URSS.

Il caso Fedun fa meno impressione, egli è “solo” principale azionista della compagnia petrolifera di stato Lukoil, braccio destro del CEO azero di quest’ultima Vagit Alekperov e allo stesso tempo Presidente dello Spartak Mosca, uno dei club russi più vincenti e tifati. Molto più interessante è la vicenda dei fortunati fratelli Fursenko, buoni amici di Vladimir Putin sin dai tempi in cui tutti e tre frequentavano gli uffici comunali di San Pietroburgo alla metà degli anni ‘90: il maggiore, Andrei, è stato Ministro dell’istruzione sino a qualche giorno fa, il secondogenito, Sergei, direttore generale di Lentransgaz (controllata da Gazprom) ed ex Presidente dello Zenit San Pietroburgo (che è stato rivitalizzato proprio con i soldi pubblici provenienti dalla Gazprom dopo un periodo molto buio), è ora Presidente della Federcalcio russa. Entrambi posseggono una dacia nell’esclusiva Solovyovka, in Carelia, loro vicini di casa e soci nella fumosa cooperativa Ozero (lago) sono personaggi come Vladimir Putin e  Vladimir Yakunin (CEO delle Ferrovie russe).

 

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TANTI SOLDI, POCHI PROGETTI – L’interesse di miliardari e uomini di potere potrebbe far pensare ad un movimento calcistico estremamente vitale, così però non è. La serie A russia, salve le società moscovite e lo Zenit San Pietroburgo, è popolata da squadre poco competitive che si combattono gli ultimi posti di classifica e dispongono di strutture e stadi obsoleti e sottodimensionati. I club più ricchi, di contro, tentano di mettere a segno colpi di mercato sensazionali acquistando giocatori per lo più stranieri (e abbastanza stagionati) in modo da ingraziarsi l’opinione pubblica. Salvo pochissime eccezioni, come la conosciuta scuola calcio finanziata dall’Avtovaz a Togliatti, minima attenzione è data al futuro, ai vivai, alla formazione dei giovani calciatori.

Così, mentre la nazionale dell’URSS vinse il campionato europeo nel 1960, giunse alle semifinali europee nel 1964, 1972 e 1988, fu semifinalista mondiale nel 1966 e potè costantemente godere di campioni di primissimo livello grazie ad un sistema votato più alla cura per la formazione dei calciatori che allo show business, la rappresentativa che prenderà parte al torneo che inizierà tra pochi giorni non sembra così ricca di giovani talenti e volti nuovi. Se le ormai invecchiate promesse come Andrei Arshavin e Roman Pavljucenko, già importanti attori al campionato europeo austro-elvetico di quattro anni fa, non si renderanno protagonisti di una nuova (e tardiva) fioritura, e se l’immortale commissario tecnico Dick Advocaat (straniero come Luciano Spalletti e molti degli allenatori dei club più blasonati, nella foto a destra) non farà miracoli sarà piuttosto difficile per la Russia ottenere risultati di pregio.

 

I RUSSI IN POLONIA – Dopo il match dell’8 giugno contro la Repubblica Ceca a Breslavia la nazionale russa si trasferirà a Varsavia per giocare i restanti incontri del girone eliminatorio contro Grecia e Polonia.

Tutte e tre le squadre soggiorneranno nel lussuoso Bristol Hotel, situato poco lontano dalla residenza del Presidente Komorowski, subentrato con elezioni anticipate a Lech Kaczynski dopo il disastro aereo di Smolensk del 10 aprile 2010 in cui, in occasione di una visita commemorativa del massacro di Katyn, perì buona parte della classe dirigente polacca. Questa coincidenza fa paura. Il giorno 10 di ogni mese parecchie migliaia di persone (tra le quali molti nazionalisti anti-sovietici e anti-russi) manifestano nel centro di Varsavia per chiedere verità e chiarezza sulla sciagura e concludono la loro marcia di fronte ai cancelli del palazzo presidenziale; nulla, il 10 giugno, impedirebbe ad alcune frange di proseguire la “passeggiata” sino al famigerato albergo e creare disordini e violenza. Tra russi e polacchi non corre buon sangue, dal sedicesimo secolo al secondo conflitto mondiale si sono combattute più di dieci guerre, l’Impero russo ha partecipato da protagonista alle tre spartizioni della Polonia alla fine del diciottesimo secolo, la ferita che fa più male è però l’occupazione armata sovietica che ha imposto il comunismo e la povertà ai polacchi fino al 1989. Il problema è serio, per questo il Ministro dello sport polacco Johanna Mucha ha caldamente consigliato alla Federcalcio russa di Sergei Fursenko di cercare una sistemazione meno in vista, alla richiesta hanno seguitato sdrammatizzazione e cortese diniego.

Nel mondo contemporaneo, dove gli istinti si sfogano negli stadi e le “guerre” (per lo più) si combattono sui campi di gioco, il pallone è spesso geopolitica e contenitore di una moltitudine di implicazioni e sentimenti che travalicano di molto il semplice dato sportivo. Per quel che riguarda il campionato europeo in procinto di iniziare l’incrocio russo-polacco (sul campo e per le strade di Varsavia) è, insieme alle risposte alla vicenda Timoshenko provenienti dall’Unione Europea squassata dai debiti, uno degli snodi più delicati. L’augurio, il sogno, è che sia lo sport pulito a prevalere su tutto il resto. Almeno per un mese.

 

Vittorio Maiorana

Nazional(im)popolare

Caffè Europeo – Non ci credeva nessuno, nemmeno i più ottimisti, costretti a nascondere l’entusiasmo dopo la figuraccia ai mondiali del 2010. La semifinale con la Germania è invece arrivata, portandosi dietro tutto il carosello di parallelismi con le condizioni critiche della vecchia Europa, riunita oggi nel vertice decisivo. Il passaggio della fase ai gruppi ci ha tenuto tutti col fiato sospeso, ma ora viene il difficile, dato che la sfida con la Germania è un evergreen che si ripete da anni. Dopo la vittoria con l’Inghilterra, anche i più pessimisti iniziano ora a credere nello “spirito di Berlino”. Il “cucchiaio” di Pirlo, citato ieri sera da Sergio Ramos, sembra aver dato solo il primo assaggio per arrivare all’insperata “ciliegina” di Kiev

 

L’ITALIA DEL GATTOPARDODel doman non v’è certezza, scriveva Lorenzo de’ Medici 520 anni fa. Non si può dire che la frase non sia di estrema attualità, pensando alla nostra Italia, intesa sia come Paese sia a livello di Nazionale. Il concetto della Nazionale specchio del proprio Paese è uno stereotipo che non sempre corrisponde alla realtà. Eppure, così come nel 2010, possiamo dire che calza a pennello per il nostro caso. Potremmo andare a rileggere quanto scritto due anni fa, in occasione dei mondiali sudafricani, per dire che è cambiato tutto, a partire dalle guide (da Lippi e Berlusconi a Prandelli e Monti, nessuno come lui può essere definito commissario “tecnico” del Paese), ma in fondo le differenze sono assai pochine. Potremmo dire, continuando il paragone, che due anni fa in entrambi i casi eravamo assai vicini alla fine di un ciclo, e ora non vediamo ancora con certezza la nascita di un ciclo nuovo, ma siamo in una fase di passaggio, con pochi punti fermi e tante incognite, sia per il nostro Paese sia per i nostri azzurri.

 

CI SORRIDONO I MONTI? – Tante volte, quando bisogna rilanciare la nostra Nazionale dopo periodi assai negativi a livello di prestazioni e di risultati, si parla di “Operazione simpatia”. Ecco, non si può dire che sia questa la “tattica” dalla quale ha preso spunto il C.T. Monti, chiamato come allenatore d’emergenza per salvare il Paese dall’orlo di una retrocessione nella divisione inferiore, dopo le inevitabili dimissioni del mister precedente. È evidente che anche il Premier, inizialmente benedetto dalla folla come l’uomo della salvezza, il Guardiola che avrebbe risvegliato il Paese, si ritrova adesso con parecchio tifo contro, a causa di provvedimenti tutt’altro che popolari. Un conto è salvarsi, un conto è crescere in classifica, e in questa fase due il nostro Governo, lo staff tecnico della squadra, sta incontrando maggiori fatiche. Il C.T., inoltre, è frenato dalla scadenza del contratto a breve termine, nella primavera della prossima stagione. Lì sì ci sarà da aprire un nuovo ciclo, anche se per adesso si vedono ben pochi spiragli di luce e di cambiamento per il futuro, e si teme che siano i “soliti noti”, da ovunque si guardi, a battersi per ottenere il posto da allenatore.

 

QUALCHE GRILLO PER LA TESTA – Se non fosse così, se non arrivassero a proporsi il Conte o lo Stramaccioni di turno a portare un po’ di novità nelle idee e nello stile, una ventata d’aria fresca, ci potrebbero essere due forti rischi: la disaffezione totale dei tifosi, che potrebbero disertare in massa gli “stadi”, ovvero le urne, nella prossima partita decisiva, e una nausea e uno sfinimento nei confronti della “casta” degli allenatori tali da scegliere chi allenatore non è, ma viene scelto solo per rompere il sistema. “Almeno prima ci si divertiva”, chiacchiera comune nei bar dello sport di chi rimpiange lo stile da showman del mister precedente. Sarebbe da ridere anche scegliere dei comici al posto degli allenatori, forse. E allora ci permettiamo di essere impopolari, e tutto sommato di tenerci stretti l’attuale commissario tecnico. E se adesso mister Monti sembra immerso nel pantano, senza riuscire ad adottare provvedimenti utili a farci crescere per arrivare a scalare diverse posizioni in classifica, i libri di storia sportiva, guardando dall’esterno e con obiettività quanto accaduto in questi mesi, racconteranno di quella prima fase quasi miracolosa, di quella salvezza ormai impossibile, tale era il crollo verticale della squadra. La serie B sembrava certa, così poi non è stato. Poi, si sa, i tifosi hanno la memoria corta. E in particolare gli italiani sono maestri nel sottolineare in matita rossa soprattutto le loro negatività, piuttosto che evidenziare i lati positivi. Ce ne basti sottolineare uno solo, dato che siamo abituati ad allargare i confini: il ruolo, l’immagine e la credibilità del nostro Paese all’estero sono tornati a livelli che da tempo non si vedevano.

 

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SQUADRA DI LOTTA O DI GOVERNO? – E veniamo a mister Prandelli, capo del Governo di questa Nazionale azzurra. Anche lui è partito forte: l’uomo del nuovo ciclo, sempre sorridente e mai imbronciato come il Premier precedente. Belle prestazioni, trasparenza, anche una certa dose di bel calcio. Si punta sulla qualità, storicamente non proprio la prima caratteristica dell’Italia azzurra. Qualificazione all’Europeo ottenuta facilmente, giocando bene e subendo solo due gol. Anche qui però la “fase due” sembra segnare un brusco stop, come per il C.T. Monti. Prime crepe emergono nella popolarità del Premier Prandelli, a causa di alcune controverse scelte della sua squadra di Governo per gli Europei. Da un lato, alcune osservazioni di carattere squisitamente tecnico: l’assenza di prime punte, le discussioni sul blocco Juve, primo partito, vincitore alle elezioni questa stagione (7 bianconeri su 23: per alcuni sono troppi, per altri troppo pochi, pensando al livello della Juve quest’anno), il cambio di modulo nell’imminenza degli Europei, che sembra rigettare il lavoro di due anni, con quel De Rossi centrale di difesa che potrebbe apparire un azzardo. Altre questioni sono invece di altro carattere, legati a scandali veri o presunti che hanno colpito alcuni ministri, tanto che uno è stato escluso all’ultimo dalla compagine governativa. Poi si sa, nel Paese degli scandali il garantismo non va di moda, e giungiamo spesso a un livello di indignazione tale da gettare fango, tanto nel pallone quanto nella politica, a prescindere dall’accertamento di responsabilità, che a volte vi sono, e gravissime, mentre altri casi alla prova dei fatti si sgonfiano come bolle di sapone. Insomma, alla resa dei conti, per il Premier Prandelli far crescere questo nuovo ciclo sembra più complicato del previsto. D’altronde si sa, siamo maestri nel complicarci la vita da soli.

 

SI SCENDE NELL’ARENA – È giunta l’ora, la prova del campo. Iniziano gli Europei, che – vi ricordate? – volevamo disputare nel nostro Paese, ma cinque anni fa non siamo neanche stati in grado di battere la concorrenza, tutt’altro che agguerrita, di Polonia e Ucraina. Nella gara di esordio, gli azzurri contro i campioni del mondo spagnoli (ecco, qui l’accostamento tale Paese-tale Nazionale non è poi così veritiero…) potrebbero scendere in campo con due giocatori di colore su undici: a suo modo un evento storico, figlio dei nostri tempi, che ci piace sottolineare. Come andrà? Lo scetticismo è forte. Ci esaltiamo nelle difficoltà e nell’emergenza, diciamo spesso. Storicamente vero, ma non è certo un’equazione, soprattutto nel campo di calcio. Due anni fa, alla vigilia della Slovacchia, scrivemmo proprio così, mostrando enorme ottimismo, che finì spernacchiato dalla storica imbarcata che ci siamo presi. Eppure, anche questa volta vogliamo guardare positivo: il calcio, dai mondiali del 1950 all’ultima Champions, fino a Olanda-Danimarca di ieri sera, è pieno di esempi e storie meravigliose che premiano squadre che partono spacciate e chiudono in trionfo. Senza dimenticare, in questa carrellata, quel meraviglioso mondiale 2006, rispetto al quale, attualmente, il clima alla vigilia è assolutamente idilliaco. E allora coccoliamoci i nostri migliori giocatori, da Buffon a Pirlo, da De Rossi a Marchisio, da Balotelli a Cassano, speriamo nelle liete sorprese, dai Giaccherini ai Govinco, puntiamo sul nostro gruppo, scendiamo in campo coi nostri azzurri e vediamo che succede. Pessimisti o ottimisti, delusi in partenza o speranzosi, vedete voi. In fondo, chi vuol essere lieto sia, come diceva messer ‘de Medici.

 

Alberto Rossi

Mamma li Tuareg

Dal 2011, il Mali è minacciato dalla rivolta dei tuareg del nord, i quali, alleatisi con il gruppo islamista Ansar Dine, hanno dichiarato l’indipendenza dello Stato di Azawad, imponendo la shari’a in alcune zone. Insorgendo contro le sconfitte nelle regioni settentrionali, i militari hanno rovesciato il governo di Touré, accettando la proposta dell’ECOWAS per la presidenza di transizione di Traoré, attualmente sotto cure mediche in Francia per le percosse subìte da un gruppo di manifestanti. Nell’Azawad, tuttavia, il fronte dei ribelli mostra segni di frattura riguardo all’applicazione della shari’a e allo status dei non musulmani nel Paese. A preoccupare, però, è l’assoluta mancanza di informazioni certe sui confini della crisi del Mali

IL COLPO DI STATO – Per comprendere l’attuale situazione in Mali è necessario riepilogare i fatti occorsi negli ultimi mesi. Il 22 marzo, un gruppo di militari guidati dal capitano Amadou Sanogo, definito dal “Time” «un improbabile uomo forte», ha rovesciato il governo del legittimo presidente Amadou Toumani Touré, formando la Commissione per la ricostituzione della democrazia e per la restaurazione dello Stato. Alla base del golpe sarebbe l’esasperazione dei soldati per la frustrante conduzione delle operazioni contro i tuareg del nord, per l’equipaggiamento vetusto e inefficiente, per l’addestramento scarso e la presenza di molte reclute inesperte in prima linea. Dal 2011, infatti, i tuareg del Mali si sono ribellati contro il governo di Bamako, unendosi nel Fronte di liberazione nazionale dell’Azawad, una coalizione di gruppi combattenti composti anche da reduci della guerra civile in Libia e da militanti del gruppo islamista Ansar Dine, che reclama la sovranità sulle regioni settentrionali di Gao, Kidal e Timbuctu. LE INCERTEZZE DELL’ECOWAS – Costretto alle dimissioni Amadou Touré l’8 aprile, l’ECOWAS ha imposto alcune sanzioni economiche e politiche nei confronti del Mali, ma ha evitato il ricorso all’intervento militare, scegliendo di imbastire una serie di negoziazioni che hanno condotto al passaggio dei poteri dalla giunta di Amadou Sanogo al Parlamento. Nel frattempo, in alcune zone del nord entrava in vigore la shari’a, mentre monumenti e beni archeologici erano distrutti dalla furia delle formazioni islamiste che vantano legami con al-Qaeda. A metà aprile, il dialogo tra ECOWAS e giunta di Bamako ha portato a individuare il presidente di transizione in Dioncounda Traoré, speaker del Parlamento. Il 21 maggio, però, Traoré è stato ricoverato in ospedale e, quindi, trasferito in Francia per alcuni accertamenti medici, perché percosso da manifestanti che protestavano contro le ingerenze dell’ECOWAS, invocando a gran voce il nome di Sanogo. VERSO UNO STATO ISLAMICO? – Nelle regioni settentrionali, ormai nelle salde mani degli insorti, la situazione ha subìto una rapida degenerazione. Sfruttando i disordini nella capitale e il vacuum istituzionale, i tuareg hanno conquistato le maggiori città del nord, tra le quali Timbuctu, proclamando unilateralmente la nascita di uno Stato indipendente, l’Azawad, e trovando un accordo con Ansar Dine per la costituzione di un sistema basato sulla legge shariatica. Per tutto aprile si sono susseguite le immagini di miliziani che incendiavano gli antichi monumenti di Timbuctu, patrimonio UNESCO, distruggendo le tombe dei santi venerati dalle popolazioni locali e ogni testimonianza della cultura pre-islamica o non del tutto aderente ai dettati coranici. Tuttavia, già dopo pochi giorni, il fronte degli insorti ha cominciato a vacillare, e sempre più frequenti sono state le voci di scontri tra i tuareg e Ansar Dine, finché, il 29 maggio, non è arrivata da entrambe le parti la conferma del mancato accordo sul futuro Azawad. Sebbene ancora non ci sia chiarezza sui reali motivi della frattura, né della sua entità, alcune fonti riportano quali punti di disaccordo il livello di applicazione della shari’a o il trattamento dei volontari non musulmani presenti nella regione.

IL MANTO DELL’INCERTEZZA – Al di là della riproposizione cronologica, sulla quale, tra l’altro, non c’è concordia, ad allarmare è la mancanza di confini definiti nella vicenda. Se gli avvenimenti di Bamako possono comunque rientrare nei canoni del colpo di Stato militare, con i disordini e la situazione caotica che ne derivano, i fatti delle aree settentrionali del Mali aprono scenari ben più inquietanti, soprattutto perché scarseggiano informazioni e dati certi. La rivolta dei tuareg potrebbe condurre alla creazione di un nuovo Paese islamico, interamente desertico e isolato, poiché nessuno degli attori regionali, per il momento, ha manifestato la reale volontà di intervenire. Tuttavia, a impensierire è anche il ruolo di Ansar Dine, gruppo del quale si conosce poco, dal suo presunto legame con al-Qaeda, fino ai suoi connotati talvolta più prossimi al brigantaggio che al terrorismo. Il problema principale per gli osservatori esterni è proprio l’assoluta mancanza di informazioni e l’incapacità, anche per le stesse fonti dirette, di definire cosa stia accadendo in un territorio che, composto dalle regioni di Gao, Kidal e Timbuctu, è grande come la Francia. Difficilmente ci sarà un intervento dell’ECOWAS nel breve periodo, né le ultime notizie lasciano supporre che Alassane Ouattara sia disposto a inviare nel novello Azawad il contingente di 3mila uomini già mobilitati. Per il Mali, quindi, si prospettano tempi oscuri, ma, al momento, purtroppo, ne avremo solo una conoscenza parziale e in lieve differita.

Beniamino Franceschini

[email protected]

La Grande Muraglia di Hong Kong

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L’insolita migrazione di donne cinesi intenzionate a partorire a Hong Kong sta provocando il malcontento tra i residenti e i Mainlanders. Leung, il neo eletto Capo dell’Esecutivo, vuole fermare “l’invasione”, forse: il proposito è quello di sbarrare le porte alle madri non residenti. Le intenzioni sono serie o è solo propaganda politica?

CALAMITA’ BIBLICA? – “Hong Kong è invasa dalle locuste!”. Così esordisce il manifesto pubblicato dal quotidiano locale Pingguo Ribao; ma non si riferisce ad una inaspettata calamità biblica, bensì al notevole flusso di donne cinesi incinte che scelgono di partorire ad Hong Kong pur non essendo residenti. “L’invasione” non è dovuta solo alle migliori condizioni sanitarie che offrono gli ospedali del “porto profumato”, ma soprattutto alla possibilità per i propri figli di ottenere il diritto di residenza. Nel 2011 i bambini nati a Hong Kong da genitori non residenti sono stati più di 36.000, cifra destinata a scendere intorno a 25.000 nel 2013.  L’esperienza coloniale ha inciso profondamente sul piano culturale oltre che politico ed economico, rendendo Hong Kong diversa dal resto della Cina. L’ex colonia è oggi una Regione ad Amministrazione Speciale cinese (HKSAR), tuttavia la migrazione delle mamme” ha risvegliato i vecchi risentimenti nei confronti del Mainland. Il manifesto citato descrive perfettamente lo stato d’animo dei cittadini di Hong Kong: “Volete spendere 1.000.000 di HK$ ogni 18 minuti per crescere un bambino i cui genitori non sono residenti? Cittadini di Hong Kong, ne abbiamo abbastanza! Poiché capiamo che voi (cinesi) siete minacciati dal latte in polvere contaminato, vi abbiamo permesso di venire e accaparrarvi il nostro; poiché capiamo che non avete diritti, vi abbiamo ospitato liberamente a Hong Kong, poiché capiamo che il vostro sistema educativo è indietro, abbiamo condiviso le nostre risorse educative con voi; poiché sappiamo che non leggete il cinese tradizionale, abbiamo utilizzato quello semplificato. Per favore rispettate la nostra cultura quando venite ad Hong Kong, se non fosse per Hong Kong sareste fregati. Chiediamo fortemente al governo di rivedere l’articolo 24 della Basic Law! Poniamo fine all’invasione senza fine delle donne incinta non residenti provenienti dal Mainland!”. LA RISPOSTA DI LEUNG – Il malcontento che serpeggia nella città sembra essere stato ascoltato da Leung Chun-Ying, il nuovo Chief Executive, la cui investitura avverrà il prossimo primo luglio. Leung ha stabilito il suo primo obiettivo: impedire alle donne del Mainland non sposate con residenti di partorire negli ospedali privati dell’ex colonia; qualora tale divieto non sia rispettato, potrebbe non essere garantito ai loro figli il diritto di residenza. Leung non ha specificato di quali strumenti legali voglia servirsi, se di una diversa interpretazione del testo quasi-costituzionale di Hong Kong oppure di altri mezzi legali. Inoltre, il neo-eletto Capo dell’Esecutivo ha affermato di non voler interferire con l’attività dell’attuale amministrazione, ma solo indicare quale sarà il primo punto dell’agenda politica una volta preso l’incarico.   La scelta di Leung è stata prontamente criticata da Alan Lau Kwok-lam, Segretario dell’Associazione degli Ospedali Privati di Hong Kong, secondo il quale la politica di Leung provocherebbe la chiusura di molti degli ospedali da lui rappresentati. 

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PAROLE O FATTI? – La dichiarazione del nuovo Chief Executive non convince per due ragioni: il Capo dell’esecutivo di Hong Kong è scelto da un Election Committee controllato da Pechino e le sue scelte politiche sono sempre conformi ai dettami del Partito Comunista Cinese (PCC), pertanto non gode tradizionalmente di grande consenso. A ciò si aggiunga che per anni il PCC  ha inviato occultamente suoi funzionari con famiglia al seguito per fare propaganda, spiare i cittadini e accelerare il processo di “cinesizzazione” dell’ex colonia. Per quale motivo il Chief Executive, e quindi il PCC, dovrebbe impedire “l’invasione delle locuste” quando in questi anni non ha fatto altro che stimolare una migrazione dal Mainland per controllare Hong Kong? E’ alquanto probabile che la dichiarazione di Leung sia solo un espediente temporaneo per calmare gli animi degli Hongkongers e che non sia seguita da un seria manovra politica.   L’unica cosa certa è che in questi mesi le proteste dei residenti contro il governo locale e nazionale sono sempre più vibranti. Fermare (veramente) “l’invasione delle locuste” permetterebbe a Leung di cominciare il mandato con un pizzico di credibilità in più.

Giorgio Cuscito [email protected]

La Grande Muraglia di Hong Kong

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L’insolita migrazione di donne cinesi intenzionate a partorire a Hong Kong sta provocando il malcontento tra i residenti e i Mainlanders. Leung, il neo eletto Capo dell’Esecutivo, vuole fermare “l’invasione”, forse: il proposito è quello di sbarrare le porte alle madri non residenti. Le intenzioni sono serie o è solo propaganda politica?

CALAMITA’ BIBLICA? – “Hong Kong è invasa dalle locuste!”. Così esordisce il manifesto pubblicato dal quotidiano locale Pingguo Ribao; ma non si riferisce ad una inaspettata calamità biblica, bensì al notevole flusso di donne cinesi incinte che scelgono di partorire ad Hong Kong pur non essendo residenti. “L’invasione” non è dovuta solo alle migliori condizioni sanitarie che offrono gli ospedali del “porto profumato”, ma soprattutto alla possibilità per i propri figli di ottenere il diritto di residenza. Nel 2011 i bambini nati a Hong Kong da genitori non residenti sono stati più di 36.000, cifra destinata a scendere intorno a 25.000 nel 2013.  L’esperienza coloniale ha inciso profondamente sul piano culturale oltre che politico ed economico, rendendo Hong Kong diversa dal resto della Cina. L’ex colonia è oggi una Regione ad Amministrazione Speciale cinese (HKSAR), tuttavia la migrazione delle mamme” ha risvegliato i vecchi risentimenti nei confronti del Mainland. Il manifesto citato descrive perfettamente lo stato d’animo dei cittadini di Hong Kong: “Volete spendere 1.000.000 di HK$ ogni 18 minuti per crescere un bambino i cui genitori non sono residenti? Cittadini di Hong Kong, ne abbiamo abbastanza! Poiché capiamo che voi (cinesi) siete minacciati dal latte in polvere contaminato, vi abbiamo permesso di venire e accaparrarvi il nostro; poiché capiamo che non avete diritti, vi abbiamo ospitato liberamente a Hong Kong, poiché capiamo che il vostro sistema educativo è indietro, abbiamo condiviso le nostre risorse educative con voi; poiché sappiamo che non leggete il cinese tradizionale, abbiamo utilizzato quello semplificato. Per favore rispettate la nostra cultura quando venite ad Hong Kong, se non fosse per Hong Kong sareste fregati. Chiediamo fortemente al governo di rivedere l’articolo 24 della Basic Law! Poniamo fine all’invasione senza fine delle donne incinta non residenti provenienti dal Mainland!”. LA RISPOSTA DI LEUNG – Il malcontento che serpeggia nella città sembra essere stato ascoltato da Leung Chun-Ying, il nuovo Chief Executive, la cui investitura avverrà il prossimo primo luglio. Leung ha stabilito il suo primo obiettivo: impedire alle donne del Mainland non sposate con residenti di partorire negli ospedali privati dell’ex colonia; qualora tale divieto non sia rispettato, potrebbe non essere garantito ai loro figli il diritto di residenza. Leung non ha specificato di quali strumenti legali voglia servirsi, se di una diversa interpretazione del testo quasi-costituzionale di Hong Kong oppure di altri mezzi legali. Inoltre, il neo-eletto Capo dell’Esecutivo ha affermato di non voler interferire con l’attività dell’attuale amministrazione, ma solo indicare quale sarà il primo punto dell’agenda politica una volta preso l’incarico.   La scelta di Leung è stata prontamente criticata da Alan Lau Kwok-lam, Segretario dell’Associazione degli Ospedali Privati di Hong Kong, secondo il quale la politica di Leung provocherebbe la chiusura di molti degli ospedali da lui rappresentati.   

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PAROLE O FATTI? – La dichiarazione del nuovo Chief Executive non convince per due ragioni: il Capo dell’esecutivo di Hong Kong è scelto da un Election Committee controllato da Pechino e le sue scelte politiche sono sempre conformi ai dettami del Partito Comunista Cinese (PCC), pertanto non gode tradizionalmente di grande consenso. A ciò si aggiunga che per anni il PCC  ha inviato occultamente suoi funzionari con famiglia al seguito per fare propaganda, spiare i cittadini e accelerare il processo di “cinesizzazione” dell’ex colonia. Per quale motivo il Chief Executive, e quindi il PCC, dovrebbe impedire “l’invasione delle locuste” quando in questi anni non ha fatto altro che stimolare una migrazione dal Mainland per controllare Hong Kong? E’ alquanto probabile che la dichiarazione di Leung sia solo un espediente temporaneo per calmare gli animi degli Hongkongers e che non sia seguita da un seria manovra politica.   L’unica cosa certa è che in questi mesi le proteste dei residenti contro il governo locale e nazionale sono sempre più vibranti. Fermare (veramente) “l’invasione delle locuste” permetterebbe a Leung di cominciare il mandato con un pizzico di credibilità in più. Giorgio Cuscito [email protected]

Indice dei contenuti

16 paesi partecipanti, 16 nazioni, 16 squadre nazionali, 16 tasselli del vecchio continente, 16 modi diversi d’intendere “l’Europa”, 16 maglie per altrettanti sogni di gloria. Solo Il Caffè Geopolitico vi offre 16 schede, una per ogni nazione, per comprendere tutto ciò che ruota attorno alle speranze di vittoria, non solo sportiva, di tutti i partecipanti agli Europei di Calcio di Polonia e Ucraina

 

Venerdì 8 giugno partono gli Europei 2012 di Polonia e Ucraina, la competizione calcistica più attesa in Europa: da quel giorno milioni di tifosi penseranno al proprio paese in termini di colori e cori da stadio. 16 nazioni e altrettante squadre si affronteranno a colpi di calcio giocato e prestigio internazionale, in un campo che da sempre assottiglia le frontiere tra lo sport più amato nel mondo e la politica internazionale. Il Caffè Geopolitico vi accompagna attraverso i vari passaggi dal campo alla storia con una serie di schede dettagliate per scoprire tutti i segreti e gli assi che hanno in serbo le varie nazionali. Inoltre ci sarà spazio per approfondire tematiche geopolitiche ed internazionali, tra cui naturalmente le sorti dell’Europa, il tutto affrontato con uno spirito sportivo in modo da legare il rettangolo da gioco all’arena internazionale dove in fondo gioco di squadra e talento personale hanno lo stesso valore. E allora cosa aspettate a gettarvi fra le righe della geopolitica del pallone? Il Caffè Geopolitico con “Caffè Europeo” vi accompagna anche allo stadio!

 

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Speciale Caffè Europeo Indice dei contenuti
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Di Mali… in peggio

L’Unione Africana sarebbe pronta a inviare un contingente militare in Mali purché ci sia l’avvallo delle Nazioni Unite, ma restano le incognite Russia e Cina. Ad Addis Abeba continua la negoziazione tra Sudan e Sudan del Sud, con accuse reciproche e proposte rifiutate. La Comunità sudafricana di sviluppo attacca duramente Mugabe, e incarica Zuma di favorire le riforme democratiche in Zimbabwe. In Nigeria, almeno 180 morti in un disastro aereo che ha coinvolto la città di Lagos. Ancora violenze in Guinea Bissau. Le operazioni del Kenya contro al-Shabaab. Nuova strage di cristiani in Nigeria. Il Ruanda scopre la green economy. In chiusura, una breve biografia di Robert Mugabe

 

PRONTA UNA MISSIONE UA IN MALI – Il presidente dell’Unione Africana, Thomas Yayi Boni, ha confermato alla stampa che l’Organizzazione stia tentando di costituire una missione di peace-keeping in Mali col sostegno delle Nazioni Unite. Al termine della visita in Francia, Yayi Boni, ha comunicato che il presidente Hollande si farà portavoce presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU della necessità di una risoluzione che consenta all’Unione Africana di avviare un’operazione simile a quella in Somalia. Yayi Boni ha anche fugato i dubbi circa un eventuale veto di Cina e Russia alla missione di pace, sostenendo che tutto il Consiglio di Sicurezza sia consapevole del rischio che la comunità internazionale sta correndo in Mali, ossia la nascita di un nuovo Afghanistan, frammentato, percorso da bande di briganti e da terroristi, rifugio per i trafficanti di armi e di droga. Quanto al governo transitorio di Dioncounda Traoré, il Presidente dell’Unione Africana ritiene che, tramite l’assistenza dell’ECOWAS, esso abbia il fondamentale compito di riportare la situazione a una parvenza di normalità, cominciando dalla demilitarizzazione delle città.

 

ULTIME NOTIZIE DAL VERTICE DI ADDIS ABEBA – Ad Addis Abeba continuano le negoziazioni tra il Sudan e il Sudan del Sud nel tentativo di ottemperare alle richieste della road map di Unione Africana e ONU, che prevede il raggiungimento di un accordo di pace entro tre mesi dall’inizio delle trattative. I delegati di Juba si sono dichiarati ottimisti in merito alla sistemazione dei dissidi sul petrolio, confermando che il governo sia sempre disponibile a versare a Khartoum un indennizzo di 2,4 miliardi di dollari per chiudere definitivamente l’ammanco finanziario derivante dalla scissione, ma ribadendo che ogni dialogo cadrà nel vuoto se i sudanesi non accetteranno che l’area petrolifera di Heglig sia in territorio sudsudanese. Nel frattempo, comunque, non cessano nemmeno le divergenze circa il ritiro delle rispettive forze di sicurezza dalle zone contese. Juba ha denunciato che la controparte non abbia ancora provveduto al richiamo dei propri poliziotti da Abyei, sostenendo anzi che il Sudan li abbia solo dispiegati in modo diverso. Il portavoce del ministro degli Esteri di Khartoum ha risposto negando che nell’area cittadina in questione ci siano mai stati membri delle forze di polizia, ma solo soldati, oltretutto già ritirati. Contestualmente, il Sudan ha dichiarato la propria gratitudine per il proposito del Sud Sudan di espellere gli insorti collegati al Darfur e al Kordofan, provvedimento che, tuttavia, il governo di Salva Kiir ha negato di aver mai discusso. In questi giorni, però, una speciale commissione congiunta si riunirà nella cornice del meeting di Addis Abeba per discutere proprio l’argomento dell’ospitalità concessa da entrambi i Paesi ai ribelli, analizzando la proposta di una zona-cuscinetto lungo la frontiera.

 

I PAESI SUDAFRICANI CONTRO MUGABE Robert Mugabe ha ricevuto un duro colpo dal vertice della South Africa Development Community in Angola, durante il quale è stata fugata l’intenzione del leader dello Zimbabwe di tenere le elezioni entro il 2012, anche se le modifiche costituzionali richieste dalla Comunità regionale non fossero ancora state approvate. Per prevenire questa eventualità, il presidente sudafricano Jacob Zuma, facilitatore del processo di democratizzazione in Zimbabwe, ha ricevuto il mandato per intervenire più direttamente nel dibattito sulla riforma della Costituzione, da completarsi entro un anno e preliminare alla convocazione delle elezioni. Contro Mugabe è anche Morgan Tsvangirai, Primo Ministro dello Zimbabwe, nonché leader del partito d’opposizione, il quale ha ribadito che il Presidente stia perpetrando la solita politica di violazione dei diritti e delle libertà, procrastinando l’applicazione delle riforme democratiche e, anzi, operando attivamente perché esse non abbiano seguito.

 

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DISASTRO AEREO IN NIGERIA – Domenica 3 maggio, un aereo di linea della Dana Air è precipitato nella città di Lagos, in Nigeria, provocando la morte di tutti i 147 passeggeri (ma altre fonti sostengono che a bordo fossero in 153) e di un numero non ancora precisato di persone a terra che oscillerebbe tra venti e quaranta. Il velivolo, che era in fase di atterraggio all’aeroporto di Lagos e proveniva da Abuja, era rimasto diverse settimane sotto riparazione, e il suo impiego aveva sollevato le proteste di alcuni dirigenti della Dana Air, compagnia la cui licenza di volo è sospesa a tempo indeterminato. A bordo erano presenti anche alcune importanti personalità, tra le quali il portavoce della Nigerian National Petroleum Corporation, un ex alto funzionario ministeriale, il direttore di una grande banca e il marito del ministro degli Esteri. Il presidente Goodluck ha indetto tre giorni di lutto nazionale.

 

VIOLENZE IN GUINEA BISSAU – L’Ufficio integrato dell’ONU in Guinea Bissau (UNIOGBIS) ha denunciato il frequente ricorso alla violenza da parte dei militari per la repressione delle proteste e della dissidenza. Sulla base della risoluzione delle Nazioni Unite n. 2048 del 18 maggio, l’UNIOGBIS ha contestato la reale indipendenza del governo civile al quale, a fine maggio, i golpisti avrebbero passato i poteri.

 

AZIONE KENIOTA CONTRO AL-SHABAAB – Il 29 maggio, le forze navali del Kenya hanno ucciso in uno scontro a fuoco quattordici membri di al-Shabaab nei pressi del porto di Chisimaio, in Somalia. L’imbarcazione keniota era impegnata in un pattugliamento di routine, quando i miliziani hanno cominciato a sparare. I vertici militari di Nairobi hanno comunicato che l’operazione abbia condotto anche alla cattura di venti uomini appartenenti al gruppo islamista.

 

ANCORA STRAGI CONTRO I CRISTIANI – Nuova domenica di sangue in Nigeria, a Bauchi, nel nord-est del Paese. I terroristi di Boko Haram hanno fatto esplodere un’autobomba sul sagrato di una chiesa, causando la morte di almeno dodici persone che stavano uscendo dalla messa.

 

L’ALTERNATIVA VERDE DEL RUANDA – Il 5 giugno, in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente, l’ONU ha espresso soddisfazione per l’impegno del Ruanda nel tentare di trovare nella green economy una via alternativa alla povertà. Il Governo di Kigali, infatti, ha approvato nel novembre del 2011 il documento “Green Growth and Climate Resilience“, un ambizioso progetto per la realizzazione di un modello di sviluppo sostenibile e per il raggiungimento degli obiettivi di Vision 2020, l’iniziativa mondiale per combattere la fame e il sottosviluppo.

 

Beniamino Franceschini

Le mine vaganti

Caffè Europeo – La nazionale portoghese si presenta ai prossimi Campionati Europei di Polonia ed Ucraina con lo scomodo compito di affermarsi quale “sorpresa” del torneo continentale. Pur non rientrando nel gruppo delle favorite e senza alcun assillo di vittoria, la nazionale guidata in campo da Cristiano Ronaldo potrebbe essere una sorta di mina vagante del torneo. La nazionale lusitana tiene tanto alla manifestazione calcistica anche per dimenticare la dura crisi economica che ho colpito il Paese rendendolo particolarmente vulnerabile e a serio rischio di “crack” finanziario

 

SE ATENE PIANGE, LISBONA NON RIDE – Gli effetti della crisi mondiale dopo aver colpito Grecia e Irlanda hanno raggiunto rapidamente anche il Portogallo, provocando gravi conseguenze nel Paese sia a livello finanziario che a livello politico. Il contesto portoghese presenta gravi problemi strutturali che espongono il Paese ad un concreto rischio di bancarotta. Nonostante le elezioni anticipate del giugno 2011, in cui a vincere è stato il Partito Social Democratico (PSD) di Pedro Passos Coelho, la situazione interna al Paese è ancora fortemente instabile, tanto che nelle proiezioni della Commissione Europea, Lisbona risulta essere il più serio candidato a succedere alla Grecia nel “crack” dell’euro-zona. D’altronde la fragilità intrinseca della struttura economica lusitana è resa evidente dalla sua scarsa produttività, dall’elevato debito pubblico (alla fine del 2011 era stimato al 107,8% del PIL), dalla mancanza di competitività dell’economia portoghese, dall’alto tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 12% – mentre quella giovanile concentrata maggiormente nelle regioni del Nord e del Sud del Paese si attesta al 20% – ed, infine, dal declassamento del rating nazionale da parte dell’agenzia statunitense Standard & Poor’s, la quale prevede una contrazione del 3% del PIL portoghese per il 2012. Ad aggravare una crisi già così radicata e diffusa si aggiunge, infine, il fatto che anche l’economia spagnola versa in condizioni critiche, visto che Madrid è il principale partner commerciale del Paese lusitano e proprio presso le banche spagnole sono depositati circa un terzo dei titoli di Stato portoghesi.

 

IL CALCIO COME RISCATTO SOCIALE – In Portogallo il calcio e l’hockey su prato sono gli sport nazionali per eccellenza. Come altri Paesi latini, il calcio riveste anche un ruolo importante sociale. In particolare, questo sport è visto come un mezzo di affermazione e di rivalsa. Il calcio portoghese, però, non è esente dai gravi problemi che attanagliano il Paese e come tale riflette le sue stesse difficoltà. I club portoghesi hanno accumulato debiti per oltre 800 milioni di euro e molti rischiano il fallimento (ad esempio l’Uniao Leiria). Sebbene la crisi economica abbia colpito duramente le formazioni del campionato portoghese, la passione delle tifoserie è rimasta intatta. Le squadre principali della Primeira Liga – l’equivalente della nostra Serie A – sono le due formazioni di Lisbona (Sporting Club e Benfica) e il Porto campione nazionale. Anche il tifo riflette le diverse estrazioni sociali dei cittadini portoghesi. Se la tifoseria del Benfica coincide tradizionalmente con le fasce più basse della popolazione e degli immigrati delle ex colonie africane, quella dello Sporting si identifica con i ceti più benestanti e conservatori della nazione. Anche la tifoseria del Porto ha un gruppo di supporters per caratteristiche molto vicino a quello degli “Encarnados” (i rossi del Benfica). Infatti, la maggior parte dei tifosi portisti hanno un’estrazione sociale molto umile e oltre al soprannome di “dragões” (dragoni), essi sono conosciuti anche con l’appellativo di “tripeiros”, mangiatori di trippa, piatto tipico di Oporto.

 

LA NAZIONALE DI CALCIO La formazione lusitana vanta una lunga tradizione di grandi giocatori del calibro di Eusebio, Luis Figo, Rui Costa e Joao Pinto. Pur non avendo mai raggiunto grandi risultati a livello nazionale maggiore – eccezion fatta per il terzo posto ai Mondiali inglesi del 1966 e per il secondo posto nell’Europeo casalingo del 2004 –, il calcio portoghese ha dato il meglio di sé soprattutto a livello giovanile, divenendo campione del mondo under-20 nel 1991. Attualmente la “selecção” lusitana occupa il 6º posto nel ranking mondiale per squadre nazionali della FIFA (Fédération Internationale de Football Association). Allenatore della nazionale è Paulo Bento, buon centrocampista di quantità e qualità dello Sporting Lisbona a cavallo degli anni ’90 e gli inizi del 2000, il quale ha ereditato una nazionale uscita malamente dal Mondiale sudafricano del 2010 e, in generale, alla deriva con la gestione di Carlos Queiroz, storico assistente del mitico Sir Alex Ferguson, allenatore del Manchester United.

 

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LE STELLE I leader indiscussi della formazione lusitana sono i fenomeni di Real Madrid e Manchester United, Cristiano Ronaldo, Pepe e Nani. L’estroso Cristiano Ronaldo è il leader assoluto della squadra: ala-goleador e fuoriclasse indiscusso di livello mondiale. Il grintoso e irascibile Pepe, difensore brasiliano naturalizzato portoghese, come Cristiano Ronaldo gioca nelle fila del Real Madrid e rappresenta l’altro leader della formazione lusitana. Altro giocatore particolarmente importante nelle file della “selecção” è Nani, funambolico esterno offensivo del Manchester United. Nelle convocazioni è presente anche una vecchia presenza del calcio italiano, ossia il talento mai esploso di Quaresma, autore di una grande stagione in Turchia con la maglia del Besiktas.

 

IL CAMMINO VERSO EURO 2012 Il cammino di qualificazione portoghese all’Europeo ucraino-polacco non è stato agevole. Infatti, la squadra si è qualificata come seconda nel suo girone e prima di giungere appunto alla manifestazione calcistica della prossima estate ha vinto lo spareggio contro la Bosnia Herzegovina di Edin Dzeko. I lusitani sono inseriti nel girone B e se la dovranno vedere con squadre del calibro della Germania – che ha eliminato il Portogallo grande favorito per la vittoria finale ai quarti della scorsa edizione in Austria e Svizzera –, della corazzata Olanda di Sneijder, Robben, Van Persie e Van der Vaart e contro la sempre temibile Danimarca, vincitrice a sorpresa dell’edizione continentale del 1992 al posto dell’allora fortissima Jugoslavia squalificata per via della guerra nel Paese balcanico. Passano soltanto le prime due squadre di ogni girone. Insomma, sotto a chi tocca!

 

Giuseppe Dentice

Cambiare per vincere

Caffè Europeo – In Francia, come Hollande, dopo Sarkozy, è incaricato di esaudire le grandi aspettative riposte in lui, così, in modo analogo, Blanc è chiamato a chiudere definitivamente l’esperienza di Domenech riscattando i Bleus dal disastro del Mondiale sudafricano, nel 2010. La Nazionale transalpina può vantare un attacco con nomi d’eccellenza e una qualità tecnica complessiva tra le migliori al mondo, cosicché le speranze dei francesi sono decisamente motivate. Con Hollande e Blanc, la Francia attende un nuovo corso: perché, in fondo, anche lo sport è politica

 

LE CHANGEMENT C’EST MAINTENANT – Dopo i propositi di grandeur dell’era Sarkozy, la Francia tenta di scrivere una nuova pagina della propria storia. L’elezione di Francois Hollande rappresenta, tuttavia, molto più di un solo cambio di rotta, poiché da molti osservatori è stata interpretata quale segnale di rottura rispetto all’Europa carolingia che procede lungo la direttrice Parigi-Berlino, ossia, in pochissime, semplici parole, un secco rifiuto della linea di Angela Merkel. Il nuovo Presidente francese, però, è divenuto anche un simbolo della sinistra europea, quasi un profeta delle forze socialiste, laiche e riformiste capace di rompere dopo trent’anni la maledizione di Mitterrand. Le aspettative nei suoi confronti riguardano tutti gli aspetti della vita del Paese, dalla politica estera, fino ai rapporti tra i poteri interni, passando per il rilancio dell’economia e il superamento dei contrasti acuiti di Sarkozy. Hollande, uscito vincitore da una campagna elettorale estremamente dura e polarizzata, è stato eletto nella speranza che divenga in Europa il portatore delle necessità di anteporre la crescita al rigore, convincendo la Germania che un allentamento dei vincoli di bilancio sia non solo fondamentale, ma anche indispensabile per la ripresa dell’Unione. Sul Presidente peseranno anche le attese per il rinnovamento dei rapporti con gli Stati Uniti e con i Paesi arabi in fermento, senza dimenticare la necessità di chiarire il ruolo della Francia in Africa, laddove la Françafrique, di per sé gravosa per il bilancio, ha condotto risultati controversi e non sempre limpidi.

 

DOPO LA TEMPESTA – Nel complesso, la situazione, – sia permesso un paragone in altri contesti inadeguato, – non è dissimile da quanto accaduto alla Nazionale francese con il passaggio da Raymond Domenech a Laurent Blanc. I Bleus, infatti, tornarono dal Sudafrica con il peggior risultato mai ottenuto in una competizione mondiale, eliminati nella fase a gironi, senza vittorie, con una sola rete all’attivo. Quanto, tuttavia, più impressionò l’opinione pubblica francese fu la vera e propria insurrezione della squadra contro Domenech, personaggio dal carattere brusco e scontroso, criticato in patria e poco amato dai propri giocatori. Durante l’incontro con l’Uruguay, infatti, Nicolas Anelka, esasperato dal clima nello spogliatoio, insultò il tecnico, gesto che fu sanzionato con l’allontanamento dell’attaccante dal ritiro. I suoi compagni, però, si mostrarono solidali con lui, rifiutandosi di allenarsi e consegnando a Domenech un duro comunicato, preludio allo sfogo violento del capitano della Nazionale, Patrice Evra, il quale, al termine della partita contro il Sudafrica, si scagliò fisicamente contro il tecnico. Già in aprile, comunque, la Francia era stata sconvolta dall’affaire Zahira, uno scandalo reso pubblico dalla televisione “M6” e che interessò Ribéry, Govou e Benzema, accusati di aver frequentato una prostituta minorenne. La reazione dell’opinione pubblica fu sostenuta dal ministro dello Sport, Rama Yade, la quale chiese che i giocatori coinvolti non fossero convocati in Nazionale. L’episodio è ancora oggetto di discussione, nonostante tutte le accuse siano cadute, poiché i calciatori dimostrarono che all’epoca fossero ignari dell’età della ragazza.

 

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L’UNDICI DI BLANC – Oltralpe, quindi, grandi aspettative accompagnano Laurent Blanc, che, durante gli ultimi due anni, ha lavorato intensamente per donare nuova credibilità ai Bleus attraverso un profondo rinnovamento della formazione e un metodo basato su discrezione e rigore. La formazione francese vanta nomi illustri e molti giocatori giovani, ma è l’attacco il reparto al quale prestare maggiore attenzione, poiché Blanc potrà contare su punte del livello di Benzema e Giroud, e sul sostegno, durante la fase offensiva, di Gourcuff, Ménez, Nasri e Ribéry. In difesa, Evra, Mèxes e Révèillere garantiscono una buona solidità, mentre a centrocampo M’Vila e Malouda hanno l’esperienza e la tecnica per compattare i ranghi, interdire l’azione avversaria e dettare i tempi della ripartenza dei tre attaccanti o dei trequartisti. Considerato che Blanc potrebbe schierare un 4-3-3, adattabile in un 4-2-3-1, la formazione non dovrebbe essere dissimile dalla seguente: LLoris; Reveillere, Mexes, Rami, Evra; M’Vila, Cabaye, Malouda; Nasri, Benzema, Ribery.

 

ALLEZ LES BLEUS! – Già vincitrice di due Europei, nel 1984 e nel 2000, la Francia giocherà nel gruppo D, affrontando Ucraina, Svezia e Inghilterra, un girone che, secondo Raymond Domenech, non costituirà un ostacolo insuperabile, ma che, in realtà, nasconde molte insidie. Laurent Blanc ha tentato di mantenere alta la tensione, e, soprattutto, di gestire l’aspetto comportamentale della squadra con fermezza, pretendendo continuità in campo e disciplina nello spogliatoio. «Il nostro obiettivo, – ha detto il tecnico, – sono i quarti di finale: non dimentichiamo da dove partiamo, cioè qual è stato il risultato dell’ultima competizione internazionale, nel 2010». La Francia ha tutte le potenzialità per condurre gli Europei ad altissimo livello, perché, da un lato, la qualità della formazione è tra le migliori al mondo, dall’altro lato, almeno sino a qui, il lavoro di Blanc è stato fondamentale per riportare la serenità tra i Bleus.

 

Beniamino Franceschini

Don’t cry for me Ucraina!

Caffè Europeo – Giovane nazione, attraversata dai soliti vecchi giochi di potere, e giovane nazionale di calcio, guidata da esperte star del calcio internazionale: questa è l’Ucraina che si presenta a UEFA EURO 2012, un paese che vive in questo ultimo periodo una situazione politica difficile legata alla vicenda Tymoshenko e alla bagarre parlamentare legata alla presentazione della legge che istituirebbe il russo come seconda lingua ufficiale. Kiev spera però di dare di sé all’Europa intera un’immagine nuova e positiva e vede nel vicinissimo evento sportivo l’occasione per ottenere ciò

 

STESSA STORIA, STESSO POSTO – E’ ormai da diverse settimane che il caso della bella Yulia vive una situazione di stallo o, per meglio dire, non registra significativi sviluppi: il processo non è ancora iniziato ed anzi è stato rinviato nuovamente, fissando la prossima udienza per il 25 giugno. La motivazione è sempre la stessa: le condizioni di salute dell’ex capo di governo non permettono lo svolgersi delle attività processuali; dato lo stato di salute dell’imputata è però possibile un ulteriore rinvio, portando così il processo a celebrarsi dopo la chiusura degli europei prevista per il primo luglio. Questo farebbe molto comodo al governo Yanukovich, che eviterebbe possibili manifestazioni internazionali e nazionali di dissenso proprio mentre i riflettori sono puntati sul paese.

 

UN BUON ACCORDO – Nel frattempo, precisamente il 16 maggio, l’Ue non è rimasta ferma a guardare e Martin Schulz, presidente del parlamento europeo, ha potuto annunciare un’intesa con il primo ministro ucraino Mykola Azarov. Kiev si impegnerebbe a garantire visite mediche alla Tymoshenko, effettuate da un team selezionato dall’Unione, ed ha inoltre garantito che un esponente scelto dal parlamento europeo avrà pieno accesso a tutti gli atti, nonché ai giudici ed agli avvocati legati al processo in questione; “Il nostro accordo è un reale passo in avanti nella costruzione della mutua fiducia tra Unione Europea e Ucraina” ha dichiarato soddisfato Schulz.

 

LE “NUOVE” FRONTIERE DELL’OSTRUZIONISMO – Definire come acceso il dibattito parlamentare nel paese est-europeo sarebbe un eufemismo. La tensione tra maggioranza ed opposizione resta altissima ed è degenerata (non per la prima volta) in vera e propria rissa parlamentare giovedì 24 maggio, giorno della presentazione di una legge che vorrebbe istituire il russo come seconda lingua ufficiale nelle regioni russofone del paese; un atto per unire la nazione secondo chi ha presentato il testo, un atto per disunirla secondo chi lo osteggia. Per impedirne la presentazione i parlamentari dell’opposizione non hanno nemmeno aspettato la possibilità di usare mezzi ostruzionistici canonici, bensì ha direttamente impedito fisicamente l’accesso all’aula. Quale che sia la giusta interpretazione da dare al provvedimento, resta la dimostrazione della durezza del confronto fra i filo-europei e chi non rinnega la “special relationship” con Mosca.

 

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“LA DINAMO KIEV MASCHERATA” – Nel mezzo di questo scenario sono le prospettive della squadra all’imminente torneo che spingono all’unità e orgoglio nazionali. Non è un paese con grandi tradizioni calcistiche, ciononostante ha un team in costante crescita; in Euro ’88 il team sovietico arrivò secondo ed era definito “la Dinamo Kiev mascherata” data la provenienza di molti suoi componenti: oggi sono ben 9 i giocatori della Dinamo tra i 23 convocati e chissà se galvanizzati dal tifo casalingo non riescano a compiere anche questa volta l’impresa. Tra tutti spunta il nome del pallone d’oro 2004 Andriy Shevchenko.

 

TI PIACE QUALIFICARTI FACILE – La partecipazione della nazionale ucraina alle fasi finali dei tornei internazionali è povera di exploit: l’unico episodio da registrare, non poco significativo, fu il mondiale tedesco del 2006 dove venne eliminata ai quarti di finale da una straripante Italia con un 3-0. Ma non si può certo dire che sia un avversario di poco conto perchè spesso le qualificazioni furono mancate di un soffio agli spareggi: contro la Croazia per i mondiali del ’98, contro la Slovenia per Euro 2000, contro la Germania per i mondiali asiatici del 2002; per gli europei del 2008 arrivò quarta nel proprio girone, ma gli avversari con cui si dovette confrontare parlano chiaro: Italia, Francia e Scozia. Infine non si qualificò ai mondiali sudafricani perdendo contro la Grecia. Questa volta la qualificazione è stata automatica e nonostante il gruppo D sia impietoso (gli altri 3 team sono Francia, Svezia ed Inghilterra) la squadra ospitante spera che questo sia l’anno della rinascita.

 

LA VITA DELLE STELLE – Come già detto la nazionale ucraina è una squadra giovane, i cui membri hanno poca esperienza di simili tornei e questo non mancherà di influire sulla prestazione; tuttavia i nomi eccellenti non mancano: Andriy Shevchenko guiderà la formazione e punterà tutto in questo suo finale di carriera. “Vinco l’Europeo, poi lascio.Se mi sentivo di non poter giocare ancora ad alti livelli, non mi sarei presentato per Euro 2012. La mia condizione fisica sta migliorando di partita in partita. E’ da quando sono piccolo che sogno una vittoria agli Europei”. Questo è lo spirito con cui il pallone d’oro vuole terminare la sua esperienza da giocatore. Ma per una stella arrivata al tramonto, altre ne nascono: Andriy Yarmolenko, classe ’89 e compagno di club di Sheva, è al centro di tutte le attenzioni. Attaccante completo, spesso prestato a centrocampista, ha già 19 presenze in maglia gialloblu al suo attivo, con un totale di reti pari a 8. Alto e veloce, si adatta a ogni zona del campo, purchè sia nella metà avversaria. Gli osservatori delle stelle rimangono sempre affascinati nell’assistere alla loro nascita e alla loro scomparsa…chissà se questo paragone con l’astronomia non si adatti anche alle stelle del calcio ucraine.

 

Matteo Zerini

Cosa ricordare?

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4 Giugno 1989. Piazza Tiananmen. Un manifestante solo e disarmato sbarra il passo ad una colonna di carri armati del governo cinese. Tutti probabilmente ricordano il celebre scatto inserito dalla rivista Life tra le “100 foto che hanno cambiato il mondo”. Forse pochi ricordano cosa sia successo dopo. A ventitre anni di distanza dai fatti di Piazza Tiananmen, ma soprattutto dalla crisi politica interna e dall’isolamento internazionale che ne sono succeduti, lo stato cinese è diviso da antiche tensioni e nuove necessità che minano la solidità del potere centrale

SUNDAY BLOODY SUNDAY – Nella primavera del 1989, migliaia di cittadini cinesi presero parte al cordoglio organizzato in seguito alla scomparsa dell’ex segretario del Partito Hu Yaobang. Quella che in Piazza Tiananmen sorse come una manifestazione studentesca divenne presto il culmine del malcontento sociale che andava crescendo nel corso degli anni Ottanta, trasformandosi in breve in una protesta generale contro il governo cinese. Nelle prime ore di domenica 4 giugno, l’esercito prese possesso della piazza “della porta della pace celeste” e per disperdere la folla sparò contro i manifestanti, uccidendo centinaia o forse migliaia di cittadini cinesi.

IL TRIANGOLO NO – Sin dalla sua creazione, la Repubblica Popolare Cinese ha basato la propria politica estera su un sistema strategico triangolare, una elementare forma di gioco a tre elementi, nel quale il membro più debole deve continuamente allinearsi e riallinearsi con il secondo membro più forte per evitare la distruzione. La cooperazione sino-sovietica contro la predominanza strategica degli Stati Uniti e, successivamente, la collaborazione sino-americana contro il potere militare sovietico, sono le caratteristiche predominanti di questo equilibrio di potere a tre lati che è perdurato per quasi mezzo secolo. Nel 1989, con il crollo dell’Unione Sovietica alle porte e la condanna internazionale della repressione di Piazza Tiananmen, in un sol colpo cedettero le fondamenta sulle quali si poggiava il sistema strategico triangolare e la leadership cinese si trovò d’improvviso immersa nell’isolamento più totale. La dirigenza cinese dovette così modificare velocemente la propria strategia di politica estera, in modo tale da allentare la pressione, rompere l’isolamento internazionale e restaurare un ambiente internazionale favorevole allo sviluppo economico. Né in grado né a quel tempo tanto meno interessato a bilanciare da solo l’unipolarismo statunitense, il governo di Pechino optò per una progressiva integrazione nell’ordine mondiale attraverso una crescente partecipazione sia a livello regionale che globale a forum multilaterali, accordi bilaterali e regimi internazionali.

TRAPPOLE PER TOPI – Seppur dissipato brillantemente a livello internazionale, sembra che il buio di quegli anni stia calando nuovamente sulla politica interna cinese. La destituzione di Bo Xilai, definita come la peggiore crisi politica attraversata dalla Repubblica Popolare dopo gli eventi di Piazza Tiananmen, così come la recente fuga dell'attivista cieco Chen Guangcheng stanno mostrando alcune crepe di quel solido monolite che per molti rappresenta la burocrazia autoritaria che ha guidato il Paese fin dall'epoca imperiale. In realtà, l’essenza della burocrazia cinese è tutt’altro che monolitica, ma destabilizzata da continui movimenti centrifughi che conducono progressivamente alla dispersione del potere centrale. Tale dispersione avviene sia in senso verticale, attraverso il trasferimento di una fetta di potere alle autorità locali, sia in senso orizzontale, in particolare in seguito al proliferare di nuove personalità che hanno tratto immenso profitto dalle riforme economiche e dall'apertura del mercato. Mao e Deng erano condottieri forti e tenaci, così quanto lo erano le loro regole in grado di tenere sotto controllo tali spinte centrifughe. Sarà anche vero che detto alla denghiana “non importa se il gatto sia bianco o nero finché cattura i topi”, ma adesso la mancanza di un leader carismatico che tenga unito il Paese, a suon di ideologia o crescita, inizia davvero a farsi sentire. L’attuale establishment politico cinese, infatti, appare in un momento talmente delicato da non saper proprio che topi acchiappare.

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LA LUCE OLTRE IL DIRITTO – Tra l’instabilità causata dall’assenza di un leader carismatico, funzionari del Partito alla Bo Xilai che cercano di approfittarsene, abusi delle autorità locali che sfuggono al controllo della dirigenza centrale e lunghe trattative diplomatiche che portano il Paese a ritrovarsi con un attivista agli arresti in meno e uno studente di legge all'estero in più, l’establishment cinese non è mai apparso agli occhi della comunità internazionale così in difficoltà come dai tempi di Tiananmen. Sembra che l’edificazione del tanto acclamato stato di diritto, promessa nell’articolo 5 della riforma costituzionale del 1999 e ancora molto poco attuata, sia ormai diventata una necessità o quanto meno un’ottima malta per tamponare le crepe dell’antico monolite. Ricordando, come da diario di Mao, che il sole sorge quando la notte è più buia. Martina Dominici [email protected]

Il ‘cerchio’ perfetto

Road to London 2012 – Nel 1976 il clima a Montreal, sede designata per i giochi olimpici, è a dir poco surreale. In un villaggio olimpico asserragliato e chiuso in una bolla protettiva si riuniscono gli atleti delle varie rappresentative, mentre in città le strade e le piazze sono infiammate dalle proteste e dalle dimostrazioni sindacali per le condizioni di lavoro nei cantieri delle Olimpiadi. In questa atmosfera per nulla rassicurante, sono i duri a giocare, gli atleti abituati a vivere, allenarsi e gareggiare sotto una cupola di rigida disciplina. La stella di Montreal sarà dunque Nadia Comaneci, la ginnasta di Ceaucescu, il Dioniso della Romania sovietica

 

BELLA SENZ’ANIMA – «Un’ Olimpiade senz’anima». Così Monique Berlioux, direttrice generale del CIO, definisce a priori Montreal 1976 , XXI edizione dei Giochi Olimpici moderni. Mai definizione, come vedremo, fu cosi frettolosa. Dimenticare Settembre Nero, voltare pagina. L’Olimpiade di Montreal serve essenzialmente a questo. Sarebbe dovuta essere l’Olimpiade del riscatto, sarà invece ricordata come l’Olimpiade senza un cerchio. Il mondo non ha ancora dimenticato Settembre Nero e l’orribile scia di sangue che ha lasciato alle sue spalle. Fucili e reticolati proteggono il villaggio olimpico. Blindata, scortata, presidiata. L’Olimpiade, oltre a perdere un cerchio, indossa l’elmetto. Non potrebbe essere altrimenti. A morire, in quell’ormai lontana notte di Settembre del 1972, non furono solo atleti israeliani ed agenti, morì l’utopia decoubertiana di una rassegna depoliticizzata e pacifica. Non sono medaglie e trionfi a disegnare i confini ma guerre, rivoluzioni e trattati. Ottenuta l’assegnazione dei giochi del 1976 avendo la meglio su Mosca e Los Angeles, a soli quattordici mesi dall’accensione della fiaccola agitazioni sindacali e scioperi rischiano di compromettere l’intera rassegna. «La situazione di Montreal è drammatica» ammette il CIO, al quale lo scià di Persia Rezha Pahlavi, ignaro della rivoluzione guidata dall’ayatollah Ruhollâ Khomeinî che investirà il suo paese solo tre anni più tardi, propone di dirottare i giochi a Teheran. Montreal riuscirà però a tener duro.

 

LA DIPLOMAZIA DEL PING-PONG – A sole due settimane dall’inizio della rassegna, la politica internazionale compie l’ennesima intrusione negli stadi e nelle palestre: Taiwan, appoggiata dagli Stati Uniti, pretende di partecipare ai giochi con la denominazione «Republic of China»: “non cambieremo il nome della nostra squadra, porteremo la nostra bandiera e faremo suonare il nostro inno, altrimenti preferiamo ritirarci”, tuona il presidente del comitato olimpico di Taiwan Shen Chia Ming. La Cina popolare, che da tempo intrattiene relazioni diplomatiche e consolari con il Canada, non la prende benissimo: “gravi conseguenze” seguiranno se i formosiani non rinunceranno a denominazione, inno e bandiera. Sono questi anni fondamentali per la politica estera cinese e lo sport può essere un importante mezzo attraverso il quale comunicare. Sempre più protesa a trovare una collocazione internazionale autonoma da Mosca, sarà il ping- pong ad aiutare la Cina maoista a velocizzare il processo di avvicinamento con l’occidente intrapreso con l’ammissione, nel 1970, all’ONU. Seguiranno le visite, segrete ed ufficiali,dell’allora Segretario di Stato Kissinger e del Presidente Nixon ma è indubbio il ruolo giocato dallo sport nell’atteggiamento distensivo dei due paesi: «mai prima nella storia lo sport era stato impiegato come uno strumento chiave per la diplomazia internazionale», ammetterà Chou en Lai, allora primo ministro cinese, riguardo al ruolo giocato dai “diplomatici in calzoncini” invitati.

 

GUERRA FREDDA OLIMPICA – Ma se a sciogliere i rapporti tra gli Stati Uniti di Nixon e la Cina di Mao fu la cosiddetta “diplomazia del ping pong”,in occasione di Montreal 1976 lo sport fallisce nel tentativo di conciliare l’inconciliabile: preoccupato di perdere un importante partner il Canada, che tra l’altro non riconosce l’isola asiatica, di fatto estromette Taiwan. Sulla rassegna canadese aleggia lo spettro del boicottaggio americano ma l’ufficiale presa di posizione del Presidente Gerald Ford, subentrato a Richard Nixon- travolto dallo scandalo Watergate- assicura la partecipazione degli atleti in stelle e strisce. Come vedremo nel prossimo appuntamento, il “boicottaggio politico” statunitense è solo rimandato. A poche ore dalla cerimonia inaugurale, un’altra tegola si abbatte sul comitato olimpico. Si sta per consumare il primo vero boicottaggio di massa dell’olimpismo moderno. La Regina Elisabetta, presente alla cerimonia inaugurale fissata per sabato 17 luglio, avrà sicuramente notato l’esiguo numero di atleti che prende parte alla usuale parata dei partecipanti.

 

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L’AFRICA NERA DICE NO! – È la richiesta avanzata dalla Tanzania di escludere dai giochi la Nuova Zelanda, rea di mantenere strette e frequenti relazioni sportive col Sud Africa, come noto esclusa dal CIO per la perpetuazione del regime di apartheid perseguito dagli afrikaaner del partito nazionalista, a provocare la reazione del continente nero. Mentre i dirigenti olimpici sottovalutano l’iniziativa tanzaniana respingendo la richiesta, il Consiglio superiore dello sport africano chiede la solidarietà di tutte le nazioni del continente. No, i fenomenali mezzofondisti keniani non prenderanno parte ai giochi al pari dei maratoneti etiopi e di John Akii-Bua, ostacolista ugandese detentrice del record del mondo e della medaglia d’oro olimpica. Saranno ventisei le nazioni africane che ritireranno le proprie rappresentative, imitate da Guyana e dall’Iraq. Eccezion fatta per Costa d’Avorio e Senegal, l’intera Africa dice no all’Olimpiade canadese. La rassegna olimpica non parte sotto i migliori auspici tanto che qualcuno parla prematuramente di “Olimpiade senz’anima”. Probabilmente sarebbe stato così se sulla pedana della palestra olimpica di Montreal non si fosse palesata una ginnasta proveniente dall’est.

 

LA “DEA DELLA PERFEZIONE” – I «giochi olimpici sono stati creati per l’esaltazione e la glorificazione di ogni singolo atleta», era solito ripetere Pierre de Coubertin. A Montreal saranno i 39 chili di una minuta ginnasta rumena, Nadia Comaneci, ad essere glorificati. Nata nel 1961, assorbe tutta la forza e la tenacia di un popolo che ha da tempo bandito le teste coronate e che a più riprese rifiuta di soggiacere alle scelte economiche e militari di Mosca, difendendo la propria sovranità e la propria autonomia. È già campionessa europea, ma è alla XXI edizione dei giochi che avviene la definitiva consacrazione. Medaglia d’oro nel concorso generale individuale, nelle parallele asimmetriche e nella trave, medaglia d’argento nella prova a squadre e medaglia di bronzo nel corpo libero. Come se non bastassero le medaglie a certificare l’immensità della ginnasta, Nadia ottiene quello che nessuno ha ottenuto mai nella storia della ginnastica: tre « dieci». Sono quei 39 chili a dimostrare al mondo che, se la perfezione non esiste, qualcosa le va molto vicino.

 

LA PERFEZIONE E’ NULLA SENZA LA LIBERTA’ – Mentre le bambine di tutto il mondo giocano a “ Nadia” ( quando si suol dire che il danzatore diventa la danza) lo scricciolo romeno si vede privata di qualsivoglia libertà. La Romania di Ceausescu non è posto per lei, Chi per natura volteggia nella leggenda non può vivere sotto il giogo della dittatura : «la Romania è un paese formidabile abitato da gente stupenda, però il sistema ti diceva sempre quello che dovevi fare. E quello che può apparire da fuori non è esattamente come sembra. Possedevo molto è vero, ma mi mancava la cosa più importante: la libertà». Riuscirà a lasciare il suo paese solo nel 1989, anticipando di 3 settimane la deposizione del dittatore. Lasciando una Bucarest in fiamme, si rifugia all’ambasciata statunitense a Vienna, dichiarandosi prigioniera politica. Non troppo difficile immaginare la sua prima destinazione oltre cortina: Montreal. Lì ancora la ricordano come the perfect ten”. Possedevo molto è vero, ma mi mancava la cosa più importante: la libertà. Dopo quella di Jesse Owens ( Berlino 1936) e delle Pantere Nere Tommie Smith e John Carlos ecco che le Olimpiadi ci consegnano un’altra storia fatta di sport e libertà. Le “Olimpiadi senz’anima” godranno, grazie all’atleta rumena,di vita eterna. Nadia però, insieme ai sopracitati campioni, non ha solo mostrato al mondo la perfezione, ma ha impartito a tutti noi una lezione: ci sono diversi modi per perseguire la libertà. C’è chi corre, chi salta in alto e chi volteggia. E poi c’è lei. Che dire: Perfetta.

 

Simone Grassi

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